RIVISTA ITALIANA DIFESA
Medio Oriente: la lenta marcia della Russia 06/12/2017 | Giuliano Da Frè

Due giorni fa, gli archeologi hanno scoperto nel tempio di Amenhotep III altre 27 statue di Sekhmet, la dea della guerra dell’antico Egitto. E proprio in questi giorni, il nuovo Egitto ha deciso di ripercorrere una vecchia strada, preparando un accordo strategico con la Russia. Accordo che prevede l’apertura delle basi aeree egiziane all’aviazione di Mosca, rispolverando una politica risalente a Nasser (1955), e ridimensionata e poi abbandonata dal suo successore Sadat negli anni ’70, quando subentrarono gli Stati Uniti, quale partner strategico del Cairo. Il nuovo accordo, per ora approvato in via preliminare dopo il recente incontro del Cairo tra il presidente egiziano Al-Sisi, e il ministro della Difesa russo Serghei Shogu, e ancora da ratificare nella forma definitiva, prevede un uso congiunto di basi e spazio aereo tra aeronautica russa ed egiziana, in entrambi i paesi. L’accordo avrà durata quinquennale (rinnovabile), ed esclude solamente gli aerei da ricognizione, e i cargo che trasportano materiali pericolosi. L’accordo non copre in automatico tutte le basi e le rotte: ogni anno, Egitto e Russia dovranno infatti stilare una lista di quelli disponibili all’uso congiunto, e riguarda tanto gli aeroporti militari, quanto quelli “misti”. Infine, anche se è probabile che su questi punti ci sia ancora qualcosa da limare, l’accordo suddivide i servizi congiunti tra quelli che saranno a pagamento (carburante, eventuali riparazioni, alloggio degli equipaggi e dei tecnici, supporto logistico) e quelli gratuiti: tra questi ultimi, l’appoggio ai sistemi di controllo del traffico e della navigazione aerea, e la protezione dei velivoli in transito. Non va dimenticato che, sul piano economico, l’Egitto ha firmato nel 2015 con Mosca un accordo di cooperazione e fornitura di armi e sistemi per un valore di 3,5 miliardi di dollari. La possibilità di utilizzare spazio aereo e aeroporti egiziani, andrà sicuramente a supportare l’impegno russo in Siria. Un impegno che, con la vittoria dei governativi ormai a portata di mano, si va riducendo; o, più propriamente, rimodulando, con un profilo sempre di valenza strategica, ma più basso. Nei giorni scorsi, infatti, il Capo di Stato Maggiore russo, Generale Valery Gerasimov, ha annunciato un piano volto a ridurre la presenza di militari russi in Siria. Un coinvolgimento massiccio, con perdite pesanti (compresi un generale e diversi alti ufficiali), che dovrebbe essere ridimensionato entro la fine dell’anno, con una decisione ancora da definire nei dettagli, ma che segue il round di incontri avvenuti a novembre tra Putin, Assad, e i vertici di Iran e Turchia. Gerasimov ha affermato che un contingente a ranghi ridotti presidierà le basi di Tartus e Hmeimim, e resteranno attive anche alcune basi logistiche, nonché il team del Centro di riconciliazione nazionale e di monitoraggio del “cessate il fuoco”. La possibilità di utilizzare basi e spazio aereo in Egitto, e il miglioramento dei rapporti con la Turchia, non possono che facilitare il parziale sganciamento da un teatro di guerra che, se ha rappresentato un chiaro successo politico e militare per il Cremlino, è comunque costato parecchio alla traccheggiante economia russa. Si calcola che dal 30 settembre 2015, data ufficiale di inizio dell’intervento russo in Siria (preceduto comunque da supporto logistico e missioni ad hoc di forze speciali e tecnici), solo nei primi 6 mesi Mosca abbia schierato 5.000 uomini, 7 navi, e un’ottantina di aerei ed elicotteri, che hanno svolto 10.000 missioni, con una media giornaliera di 70 sortite, ad un costo stimato in 8 milioni di dollari al giorno: il doppio di quanto inizialmente previsto. Il costo dell’intervento per il 2016 era stato fissato in 1,2 miliardi di dollari, ma secondo molte fonti ha finito per raddoppiare. A questo vanno aggiunti il 2017, e i costi di reintegro e manutenzione straordinaria del materiale perduto/usurato; tenendo conto che Mosca ha schierato il meglio della sua tecnologia, sfruttando la guerra siriana anche come vetrina per l’export militare, mentre ad Assad è stato traferito molto materiale più datato conservato nei depositi, ma ancora utile in un apparato militare che impiega vecchi sistemi d’arma ex sovietici.


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