RIVISTA ITALIANA DIFESA
Yemen: tra cessate il fuoco e stallo militare 17/12/2015 | Giuliano Da Frè

Nello Yemen insanguinato dalla seconda guerra civile della sua breve storia unitaria, si cercano soluzioni diplomatiche e politiche, mentre sul campo la situazione è sempre più in stallo. Col rischio di un piccolo Vietnam ante portas (piccola notazione storica: l’Egitto di Nasser si trovò nei guai proprio nello Yemen del Nord, intervenendo durante la guerra civile del 1962-1970), l’Arabia Saudita, alla testa dell’intervento nella guerra yemenita, nelle ultime 48 ore ha forzato la mano su due fronti politici. A spronare il governo saudita, anche la necessità di concentrare le risorse nella lotta all’ISIL e di fronteggiare l’Iran, senza però mandare all’aria i rapporti con gli alleati, Stati Uniti in primis, che premono per consolidare i rapporti con Teheran nella bizzarra alleanza che, di fatto, schiera l’Occidente contro i califfi, ma a fianco degli ayatollah. Primo passo politico è stato l’annuncio della creazione di una “grande coalizione” stretta con altri 33 stati musulmani per lo più sunniti e moderati, comprendente anche potenze regionali come Turchia (membro NATO), Egitto, Pakistan – che peraltro avrebbe smentito una partecipazione diretta - e Marocco, ma anchela Nigeria, il Senegal, e diversi altri stati africani sub-sahariani. Coalizione che sarà guidata da un centro di comando militare sito in Arabia Saudita, e che avrà come obbiettivo la lotta all’ISIL, ovunque il Califfato abbia piantato la propria bandiera, ma anche contro qualsiasi altra “organizzazione terroristica”: una strategia ambigua quanto basta ad aver già provocato i primi distinguo tra i coalizzati. Il secondo fronte diplomatico aperto è il riavvio delle trattative per un cessate il fuoco: un nuovo tentativo, dopo quello fallito a giugno durante i negoziati di Ginevra, ora spostatisi in una località riservata nei pressi di Berna. Nel frattempo, è stato annunciato un accordo provvisorio per una tregua umanitaria di 7 giorni; tuttavia, lo scorso maggio un’iniziativa analoga aveva avuto vita breve e nessuna conseguenza. Le prime 48 ore di “cessate il fuoco” sono state in effetti contrassegnate dallo scambio di circa 600 prigionieri, ma anche da scontri armati tra governativi e milizie ribelli, soprattutto a Taiz, da mesi al centro di aspri scontri. Due i maggiori ostacoli sulla strada dei negoziatori. Primo, la presenza di sacche di milizie jihadiste che non rispondono alle due principali fazioni in campo. Secondo, il sanguinoso stallo militare creatosi nel martoriato paese medio-orientale che ha, sinora, provocato almeno 6.000 morti (per la metà civili, molti caduti sotto i raid aerei degli Alleati), e devastazioni enormi in una nazione già povera. Sebbene abbia respinto l’attacco sferrato contro Aden da parte delle forze degli Hothi e dell’ex presidente Saleh, appoggiate dall’Iran, l’intervento della coalizione a guida saudita, è stato decisamente meno risolutivo di quanto non ci si aspettasse. Nonostante Ryad abbia mobilitato il più massiccio dispositivo militare messo in campo dai tempi della guerra del Golfo, nel 1991, impiegando decine di aerei da combattimento, parte della flotta (appoggiata da navi egiziane), e almeno 10.000 soldati, con un massiccio spiegamento di mezzi pesanti, è risultato complicato anche solo blindare lo stesso confine con lo Yemen, lungo il quale si sono accesi scontri con le milizie Houthi e si sono registrati tiri d’artiglieria e lanci di missili SCUD. Le forze saudite lamenterebbero un’ottantina di caduti (compresi 2 generali di brigata), la perdita di un F-15 e di alcuni elicotteri, nonché la distruzione di diversi mezzi corazzati, compresi almeno 2 carri armati ABRAMS, colpiti da missili anticarro forniti dall’Iran. Ma la guerra va male anche per gli alleati di Ryad, soprattutto per gli Emirati Arabi Uniti, ricchi di equipaggiamenti moderni, ma poveri di esperienza sul campo, che hanno subito lo stesso numero di perdite dei sauditi, ma con un contingente più modesto, e registrando il maggior disastro della campagna il 4 settembre, quando 52 soldati emiratini sono stati uccisi assieme a 15 militari alleati nell’attacco missilistico sferrato contro la base operativa avanzata di Safer. Altre pesanti perdite sono state registrate negli ultimi giorni a Taiz, dove i combattimenti proseguono senza soluzione di continuità dallo scorso aprile. Nuovi bombardamenti avrebbero provocato decine di morti tra i militari della coalizione colpendo, questa volta in maniera dura, non solo sauditi ed emiratini, ma anche il contingente senegalese e, soprattutto, i molti contractors di origine soprattutto colombiana e messicana. Da mesi, infatti, si parla di centinaia di esperti ex soldati dell’Esercito Colombiano, ormai meno pressato da una guerriglia allo sbando, reclutati dalle petro-monarchie del Golfo. Secondo l’iraniana Farsnews nel solo attacco del 14 dicembre si conterebbero 150 morti, compresi 42 contractors attribuiti alla Academi (in pratica la Blackwater 3.0), e 2 alti ufficiali della coalizione. Confermata, invece, dalla stampa colombiana la morte di 6 ex militari di Bogotà, caduti ai primi di dicembre assieme al loro comandante australiano.


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