RIVISTA ITALIANA DIFESA
Sinai: paradiso di instabilità 09/11/2015 | Pietro Batacchi

Secondo le prime indagine effettuate da agenzie di intelligence e tecnici, al 90% l'Airbus A321 della Metrojet esploso in volo e caduto in Sinai con 224 passeggeri a bordo, è stato vittima di un attentato. Dopo le prime rivendicazioni da parte di Ansar Beit Al Maqdis, giudicate non attendibili, la certezza sulla matrice terroristica, legata al Califfato, è ormai quasi completa. Ma come potrebbe essere finita una bomba a bordo del velivolo? Le ipotesi sono diverse. Potrebbe trattarsi di un ordiglio nascosto in un bagaglio collocato in stiva prima della partenza da personale a terra, simpatizzante di ISIS, o da qualcuno pagato per introdurre la bomba da uomini del Califfato. Del resto “comprare” il personale in servizio in un aeroporto come quello di Sharm non è molto difficile. Altra ipotesi sul tavolo è quella dell'assemblaggio a bordo dell'ordigno da parte di un uomo di ISIS impiegando componenti e materiale non rilevabili dai controlli in una sorta di ripetizione del fallito attentato del Natale 2009 ai danni del volo Amsterdam-Detroit. In quell'occasione un uomo di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), Umar Farouk Abdulmutallab, tentò di far esplodere un ordigno impiegando del tetranitrato di pentaeritrite, o pentite, nascosto nelle mutande, e azoturo di piombo come carica primaria, ma non vi riuscì. In questo secondo caso, bisognerebbe capire se Ansar Beit Al Maqdis ha realmente le capacità chimiche per preparare le componenti per un ordigno del genere ed assemblarlo a bordo. A prescindere dalla ipotesi sull'esplosione del volo, resta il grande problema della stabilità del Sinai messa a rischio dal braccio locale del Califfato e dalle attività delle tribù beduine. Proprio la commistione tra queste e le realtà jiahadiste è il vero problema del Sinai. I beduini di questa regione sono organizzati in tribù, le maggiori delle quali sono la Sawarka e la Tarabin nel nord e la Muszeina a sud, che tradizionalmente sono state tenute ai margini della società egiziana non potendo accedere alle cariche pubbliche e restando fuori dallo sviluppo economico dell'area. Una situazione situazione che ha causato la crescita esponenziale del malcontento e la creazione di un’unità d’intenti tra tribù beduine e quei gruppi salafiti che, storicamente, hanno in Egitto la propria culla ideologica e che nella regione del Sinai hanno trovato rifugio. Solo negli ultimi anni del “regno” di Mubarak, e dopo la stagione degli attentati ai resort turistici di Sharm, si era riusciti a trovare un equilibrio, grazie al sostegno dato dal Governo ad importanti leader tribali che aveva calmierato le rivendicazioni beduine, e l’intesa tra beduini e gruppi salafiti era venuta meno, comportando una sostanziale stabilizzazione della situazione nella Penisola. Con lo scoppio della cosiddetta Primavera Araba, la caduta di Mubarak e la successione di Morsi e Al Sissi, gli accordi di cui sopra sono venuti meno e la situazione è di nuovo precipitata, aggravata per di più dall'affermazione di ISIS che ha potuto reclutare nuovi adepti tra le centinaia di persone liberate dalle carceri egiziane nei giorni della fine del regime di Mubarak. In 3 anni, pertanto, il Sinai si è trasformato in un crocevia di attività illegali e terroristiche, cosa che ha costretto l'Egitto a schierare nella Penisola un contingente dell'Esercito, in deroga agli accordi di Camp David grazie al consenso di Israele, presso El Arish, a 50 km dalla Striscia di Gaza, dove è stato spostato anche il comando operativo del Second Field Army, la componente dell’Esercito che insieme al Third Field Army (il cui comando operativo è ora stato spostato nel villaggio di Nekhel, nella regione centrale del Sinai), è responsabile per la sicurezza della Penisola. Nonostante questi sforzi, però, il Sinai resta una delle regioni più instabili del mondo come dimostrato dalle centinaia di membri delle forze di sicurezza del Cairo uccise in tutti questi mesi.


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