RIVISTA ITALIANA DIFESA
Ritorno alla guerra: i raid aerei thailandesi infrangono la fragile tregua con la Cambogia 11/12/2025 | Marco Giulio Barone

La pace precaria lungo il confine tra Thailandia e Cambogia è crollata. A soli due mesi dal cessate il fuoco che aveva posto fine ai sanguinosi scontri di luglio, le ostilità sono riesplose con rinnovata intensità.

In seguito alla morte di un soldato thailandese nella provincia di Ubon Ratchathani all’inizio di questa settimana – attribuita da Bangkok al fuoco cambogiano e a mine terrestri – la Royal Thai Air Force (RTAF) ha lanciato raid aerei di rappresaglia, segnando una significativa escalation in un conflitto che minaccia di destabilizzare l’intera sub-regione del Mekong.

Al momento, si registrano intensi scambi di artiglieria nei pressi del complesso templare di Preah Vihear e nel cosiddetto “Triangolo di Smeraldo”, con fino a 500.000 civili costretti a lasciare le proprie abitazioni. Il rapido deterioramento dei rapporti tra Bangkok e Phnom Penh ha destato immediata preoccupazione in seno all’ASEAN e tra gli osservatori internazionali, che temono che una disputa di confine localizzata stia degenerando in uno scontro geopolitico di portata più ampia.

L’innesco immediato degli scontri di questa settimana è stato un ingaggio cinetico nella mattinata di lunedì. Secondo la Royal Thai Army, una pattuglia nel distretto di Buntharik, Ubon Ratchathani, sarebbe finita sotto il fuoco di truppe cambogiane, causando la morte di un ranger e il ferimento di altri militari. In una rara escalation, la Thailandia ha risposto non solo con fuoco di controbatteria, ma anche impiegando la componente aerea, colpendo presunti posti di comando e posizioni d’artiglieria cambogiani. Funzionari di Phnom Penh hanno negato con forza di aver avviato il combattimento, accusando invece l’aviazione thailandese di aver colpito aree civili, uccidendo almeno quattro abitanti.

Tuttavia, le radici della violenza affondano molto più a fondo rispetto a una singola pattuglia di confine. Due fattori di frizione principali alimentano il conflitto:

1) Demarcazione territoriale irrisolta: Gli 800 km di confine rimangono in larga parte indefiniti, eredità del Trattato franco-siamese del 1907. Il sentimento nazionalista di entrambi i Paesi è legato alla sovranità dell’area circostante il tempio di Preah Vihear (assegnato alla Cambogia dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 1962, sebbene la boscaglia circostante resti contesa) e ai templi di Ta Moan e Ta Krabey.

2) Risorse marittime (la OCA): Le tensioni sono traboccate dalla terra al mare. La “Overlapping Claims Area” (OCA) nel Golfo di Thailandia – una zona di 27.000 km² ritenuta ricca di riserve di gas naturale e petrolio – è divenuta un punto di infiammabilità. Negli ultimi mesi, la retorica si è accesa attorno a Koh Kood (Koh Kut), isola riconosciuta internazionalmente come thailandese ma storicamente rivendicata da nazionalisti cambogiani. Lo stallo nei negoziati sulla cooperazione per l’esplorazione energetica ha irrigidito le posizioni politiche in entrambe le capitali, rendendo impossibili concessioni militari sul terreno.

Guerra asimmetrica: uno squilibrio di forze

Gli scontri hanno messo a nudo la disparità militare tra le 2nazioni. La Thailandia possiede una delle forze armate più capaci del Sud-Est asiatico, con un budget di difesa di circa 5,9 miliardi di dollari (quasi sette volte quello cambogiano) e una dottrina incentrata su potenza di fuoco e mobilità superiori.

La Royal Thai Air Force rappresenta l’asimmetria decisiva. La flotta thailandese comprende il Lockheed Martin F-16 FIGHTING FALCON e il SAAB JAS 39 GRIPEN, piattaforme che garantiscono una superiorità aerea di cui la Cambogia è completamente priva. L’impiego degli F-16 nelle operazioni di questa settimana dimostra la volontà di Bangkok di sfruttare la propria dominanza aerea come strumento punitivo contro le incursioni di confine, capacità che Phnom Penh non può eguagliare.

Sul terreno, la Royal Thai Army schiera un mix di carri M60A3 TIFCS e mezzi più moderni come gli ucraini T-84 OPLOT-T e i cinesi VT-4, oltre ad artiglieria mobile come gli ATMOS 2000 di Elbit/Soltam e i 155 mm CAESAR di KNDS, piattaforme già risultate devastanti negli scontri precedenti.

La Cambogia, al contrario, opera con un budget significativamente inferiore (circa 860 milioni di dollari) e ha adottato una strategia di interdizione dell’area basata principalmente sul fuoco massiccio d’artiglieria. Priva di una forza aerea credibile, la RCAF dipende interamente dai sistemi terrestri per contrastare un eventuale avanzata thailandese: BM-21 GRAD sovietici, lanciarazzi TYPE 81 e TYPE 90B cinesi, armi di saturazione progettate per infliggere perdite elevate a posizioni statiche e per sopprimere le manovre mobili thailandesi.

Tuttavia, il Cambogia mantiene propri vantaggi asimmetrici: – unità di fanteria esperte del terreno giungla, in particolare l’8ª e la 9ª Divisione; – uso esteso di mine terrestri (come le PMN-2 sovietiche); – tattiche di imboscata coordinate volte a logorare le formazioni meccanizzate thailandesi.

Forze schierate e sistemi impiegati

Nell’attuale teatro operativo, che si estende dalla provincia thailandese di Ubon Ratchathani ai territori cambogiani di Preah Vihear e Oddar Meanchey, entrambi i Paesi hanno mobilitato assetti significativi.

La Royal Thai Air Force ha dispiegato F-16A/B e JAS-39, probabilmente appartenenti al Wing 1 o al Wing 21, che hanno condotto numerose sortite colpendo posti di comando della 8ª Divisione cambogiana e depositi logistici.

Di particolare rilevanza il raid condotto dai GRIPEN contro il complesso del casinò Lim Heng a O’Smach, di fronte a Chong Chom (provincia di Surin). Secondo il Second Army thailandese, la struttura era stata convertita in roccaforte militare, ospitando punti di lancio per droni kamikaze e FPV, lanciarazzi BM-21 occultati e aree di concentrazione truppe. L’attacco riflette la crescente disponibilità thailandese a colpire infrastrutture dual-use, una pratica controversa che ha attirato l’attenzione internazionale.

A supporto delle operazioni aeree, la 2ª Regione d’Armata thailandese ha mobilitato artiglieria pesante e fanteria meccanizzata. I carri M60A3 TIFCS risulterebbero già in azione e avrebbero varcato il confine entrando nella provincia cambogiana di Banteay Meanchey. Si registra inoltre l’uso continuativo di obici trainati da 155 mm – probabilmente M198 statunitensi o GHN-45 austriaci – impiegati per controbatteria e interdizione logistica.

La Cambogia ha risposto mobilitando batterie BM-21 GRAD, lanciando salve contro il territorio thailandese con modalità indicanti fuoco di soppressione contro colonne meccanizzate. La presenza di lanciatori occultati nel complesso Lim Heng conferma la tattica cambogiana di integrare asset militari in infrastrutture civili o commerciali per complicare il targeting thailandese.

La fanteria cambogiana integra il fuoco dei razzi con mortai pesanti, cannoni senza rinculo, nonché l’impiego di droni kamikaze – capacità relativamente nuova nei conflitti del Sud-Est asiatico – per tentare di contrastare la superiorità aerea thailandese. Carri T-55 sovietici e Type 59 cinesi fungono da “pillarbox mobili” nei densi ambienti di giungla, dove il terreno riduce il vantaggio dei mezzi thailandesi più avanzati.

Implicazioni internazionali: un banco di prova per l’ASEAN e non solo

Il ritorno alla guerra aperta tra due membri dell’ASEAN costituisce un colpo devastante alla credibilità del blocco. Il tradizionale “ASEAN Way” della non-ingerenza mostra crepe evidenti di fronte a un conflitto cinetico. La Malesia, presidente di turno, fatica a mediare. Il fallimento del cessate il fuoco di ottobre – negoziato dal presidente statunitense Donald Trump e dal premier malese Anwar Ibrahim – evidenzia l’assenza totale di fiducia bilaterale. Il rifiuto thailandese della mediazione terza in favore di colloqui diretti (che Bangkok domina militarmente) ha ulteriormente isolato Phnom Penh.

Ancora più grave, il conflitto rischia di coinvolgere attori esterni. La Cambogia è il più stretto alleato della Cina nella regione, e la RCAF utilizza in larga parte equipaggiamenti cinesi. La Thailandia, alleata formale degli Stati Uniti, impiega piattaforme occidentali come l’F-16. Nessuna delle due superpotenze desidera una guerra, ma un conflitto prolungato potrebbe costringerle a incrementare il supporto logistico, cristallizzando ulteriormente le divisioni strategiche.

Le chiusure dei valichi di frontiera hanno inoltre interrotto un asse commerciale da miliardi di dollari. La vicinanza dei combattimenti al Golfo di Thailandia minaccia il settore turistico – vitale per entrambe le economie – in particolare attorno all’arcipelago di Koh Kood. Un’eventuale estensione del conflitto al dominio marittimo potrebbe compromettere le rotte commerciali e congelare indefinitamente lo sviluppo congiunto dei campi energetici della OCA, lasciando entrambe le nazioni in condizione di vulnerabilità energetica e provocando tensioni sui prezzi globali.

Mentre la polvere degli ultimi raid aerei si deposita, la finestra diplomatica si sta restringendo. Senza un’immediata de-escalation, la “scaramuccia” rischia di evolvere in una guerra di logoramento che né Bangkok né Phnom Penh possono permettersi.

 

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