RIVISTA ITALIANA DIFESA
Il punto sul jihadismo in Nordfrica 16/07/2015 | Andrea Mottola

Durante la prima metà del 2015 si è assistito a diversi eventi che indicano una forte proliferazione di attività legate al jihadismo, in particolare nei paesi del Nord Africa affacciati sul Mediterraneo, a poche centinaia di miglia dalle coste europee. Basterebbe ricordare l’ufficializzazione dell’insediamento di Daesh in territorio libico, “certificata” tra la fine di dicembre e l’inizio dell’anno, oppure l'”ondata” tunisina, partita con l’attentato al museo Bardo di Tunisi e proseguita alla fine di giugno sulla spiaggia di Sousse, e infine l’autobomba esplosa a pochi metri dal consolato italiano al Cairo, poche settimane dopo un’ondata di attentati contro le forze di sicurezza egiziane sul Sinai. Gli episodi citati, i più eclatanti ma non certo gli unici, testimoniano non soltanto l’allargamento dell’area d’influenza del cosiddetto Stato Islamico (o delle organizzazioni ad essa affiliate), che spesso catalizza l’intera attenzione mediatica, ma anche la rinascita di altri gruppi del movimento jihadista, non collegati al “Califfato” ma spesso ad esso antagonisti, come quelli qaedisti. Entriamo nel dettaglio. Per quanto riguarda la situazione libica rimandiamo agli articoli presenti sul sito e sul numero di febbraio della Rivista. In questa sede si può dire che le inesistenti condizioni di sicurezza e la situazione politica del Paese, unite alle caratteristiche geografiche dello stesso, stanno rendendo la Libia, in particolare la Cirenaica, un autentico paradiso per i gruppi jihadisti e le varie milizie islamiche presenti. Nella zona di Derna e di Bengasi esistono decine di campi d’addestramento utilizzati per l’addestramento dei jihadisti in transito verso il teatro siriano-iracheno. Tuttavia, da qualche anno anche in Tripolitania iniziano a spuntare diversi campi simili, il maggiore dei quali è quello di Sabratha, situato ad un centinaio di chilometri dal confine con la Tunisia, dove si sarebbero addestrati anche gli autori degli attentati al Bardo e a Sousse. Nell’area di Derna, Daesh ha costituito la propria roccaforte dalla quale ha coordinato gli attacchi contro l’hotel Corinthia e le ambasciate d’Algeria ed Iran a Tripoli, o l’offensiva contro Sirte. Ad oggi il numero dei militanti appartenenti ad ISIS in Libia dovrebbe attestarsi tra 2.500 e le 3.000 unità. Accanto ad essa si collocano una serie di gruppi più “storici”, nati all’indomani del crollo dell’apparato di sicurezza del regime Gheddafi: tra questi,un ruolo di spicco è quello svolto da Ansar al-Sharia, gruppo qaedista costituito da circa 6.000 miliziani guidati da Mohammed Zahawi, con una forte presenza a Bengasi e nell’area di Derna, e la Muhammad Jamal Network, anch’essa molto vicina all’emiro egiziano Ayman al-Zawahiri e ad AQAP. Inoltre è estremamente probabile che in territorio libico abbiano trovato rifugio elementi di spicco di movimenti jihadisti di altri Paesi, come ad esempio il leader dell’Ansar al-Sharia tunisina Abu Iyadh al-Tunisi, oppure Mokhtar Belmokhtar, già comandante di AQIM ed attuale capo del gruppo salafita al-Mourabitoun, la cui sorte, dopo le notizie che lo davano per morto, sembra ancora non chiara. In Egitto, già dopo la caduta di Mubarak nel 2011 si era assistito ad una notevole crescita delle attività jihadiste di gruppi militanti islamici, in particolare nel Sinai. Uno dei gruppi più potenti dell’area, e responsabile dei recenti attentati ai danni delle forze di sicurezza egiziane, l’ultimo dei quali avvenuto il 1° luglio con la morte di 21 soldati egiziani, è Ansar Beid al-Maqdis. Dall’agosto 2012, il gruppo ha attaccato ripetutamente edifici governativi nella Penisola, tentato di assassinare il Ministro degli Interni Mohamed Ibrahim Moustafa (Set 13), abbattuto un elicottero dell’Esercito (Gen 14), e colpito, più di una volta, pattuglie israeliane nei pressi del confine e della Striscia di Gaza. Nell’ultimo anno, il gruppo ha esteso le proprie operazioni anche nella regione della Valle del Nilo, dove sembra aver costituito anche una sede operativa distaccata ed è presente con diverse cellule nelle principali città egiziane. Proprio da una di quelle presenti al Cairo, provengono i 3 autori dell’attentato contro il Consolato italiano nella capitale egiziana, dove lo scorso 11 luglio è esplosa un’autobomba con circa 250 kg di tritolo. Tra le ipotesi maggiormente plausibili c’è quella di un tentativo intimidatorio nei confronti dell’Italia dovuto al sostegno per l’ex Generale ed attuale Presidente Al-Sisi, anche alla luce del ruolo da esso giocato nello scenario libico, oppure il tentativo di colpire alcuni magistrati della vicina Alta Corte egiziana, responsabili delle condanne contro diversi elementi di spicco della Fratellanza Musulmana. Tuttavia, fonti della sicurezza egiziana sembrano confermare la prima ipotesi come la più plausibile. A questo attentato si aggiunge quello del 16 luglio, quando una motovedetta della Marina Egiziana in navigazione a qualche centinaio di metri dalla città di Rafah è stata colpita da un missile anticarro (probabilmente un KORNET), causando grossi danni alla nave e diversi ferititra i membri dell'equipaggio. L'azione è stata immediatamente rivendicata da Ansar Beit al-Maqdis, gruppo che, ad oggi, dovrebbe essere costituito da circa 2.500/3.000 uomini. Nonostante la dichiarazione dello scorso novembre, nella quale Ansar Bait al-Maqdis ufficializzò la propria alleanza con al-Baghdadi, sembrano esserci correnti di pensiero contrastanti al suo interno tra i lealisti di al-Qaeda, gruppo con radici molto più profonde e antiche nella zona rispetto a Daesh, formato dai membri più anziani provenienti dai 2 gruppi militanti maggiormente attivi in Egitto negli anni 90, la Egyptian Islamic Jihad e Gama’a al-Islamiyya, e i membri più giovani maggiormente inclini alla violenza e al “fascino” e al trend legato ad ISIS.

 

L’attentato del 26 giugno effettuato da Seif el-Din Rezgui (alias Abu Yihya al-Kayrawani) a Sousse che ha causato la morte di 38 turisti è avvenuto a poco più di 3 mesi di distanza dall’attentato del museo Bardo a Tunisi che causò la morte di 21 persone, compresi i 3 terroristi autori della strage. In entrambi i casi, si è trattato di attacchi effettuati da militanti appartenenti ad organizzazioni legate a Daesh. Il fatto che dei circa 7.500 volontari nordafricani che si arruolano nei ranghi di ISIL o di Jabhat al-Nusra per combattere in Iraq e Siria, il maggior contingente sia quello rappresentato dai combattenti tunisini (3.100 unità), seguiti da libici (2.200) marocchini (1.600) e algerini (6/700), dovrebbe far riflettere parecchio sul pericolo rappresentato dal jihadismo salafita tunisino. Tuttavia, l’errore da evitare in tali casi è quello di trascurare il fatto che la “manodopera” non viene impiegata solo nel teatro siriano-iracheno. Spesso, infatti, gruppi jihadisti con agende maggiormente locali, ancorché collegate al “Califfato”, attingono dal bacino di militanti nordafricani per rafforzare i propri ranghi. In Tunisia, in particolare va ricordata la Okba Ibn Nafaa Brigade, organizzazione precedentemente facente parte di AQIM, con una forte presenza nella zona montuosa del Jebel Chambi e nella sottostante città di Kasserine, probabilmente l’area più povera e trascurata del Paese. Tale gruppo è responsabile dell’attacco al Bardo e di diversi attentati contro le forze di sicurezza tunisine, l’ultimo dei quali avvenuto a Sidi Bouzid a metà giugno. La già citata costola tunisina di Ansar al-Sharia è attiva dalla prima metà del 2013 con una serie di operazioni ai danni delle forze di sicurezza e di attentati contro personalità politiche (da ricordare quella ai danni di Chokri Belaid e Mohammed Brahmi, entrambi autorevoli esponenti di partiti laicisti). Il progressivo deterioramento della sicurezza in Libia ha facilitato la sopravvivenza del gruppo e dei suoi principali membri (si è detto della probabile presenza di Abu Iyad al-Tunisi in territorio libico), molti dei quali sono fuggiti in Libia per evitare la cattura. Secondo fonti del Governo tunisino, AaS Tunisia può contare su circa 1.200 militanti e si colloca in posizione subordinata ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico, come testimoniato da un documento in cui al-Tunisi dichiara ufficialmente la propria appartenenza al gruppo guidato da Abdelmalek Droukdel, leader di AQIM. L’Algeria sembra essere esente dalle minacce rappresentate dai gruppi jihadisti, soprattutto grazie alla stabilità e alla continuità politica di cui il Paese ha goduto negli ultimi 20 anni ed alla robusta repressione operata dalle forze di sicurezza algerine, famose per l’efficacia dei loro metodi. Tuttavia, non va dimenticato che AQIM rappresenta il prodotto della guerra civile algerina, diretta discendente del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC), a sua volta costola del famigerato Gruppo Islamico Armato (GIA). I legami tra il GSPC ed al-Qaeda risalgono al 2001, quando Osama Bin Laden inviò un emissario perché prendesse contatti col GSPC in vista di una sua eventuale fuga. Nel 2003, inoltre, il gruppo dichiarò pubblicamente di supportare la guerra di al-Qaeda contro il comune nemico statunitense, diventandone ufficialmente affiliato nel 2006, poco prima di cambiar nome in al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM). Negli ultimi anni il gruppo guidato prima daMokhtar Belmokhtar e oggi da Abdelmalek Droukdel, è stato particolarmente attivo nelle regioni algerine situate a ridosso dei confini con la Tunisia e col Mali, con una forza stimata in 1.500 uomini. Negli anni recenti da AQIM sono nate 2 costole: la brigata al-Mourabitoun (2/300 unità), guidata da Belmokhtar e responsabile dell’attacco contro l’impianto per l’estrazione ed il trattamento del gas di In Amenas (Gen 13) e molto attiva nelle zone di confine con Mali e Niger; e Jund al-Khalifah (Soldati del Califfato), nata nel 2014 da un gruppo di dissidenti guidati da Gouri Abdelmalek (alias Khaled Abu Suleiman) ex braccio destro di Droukdel, morto lo scorso gennaio ad Isser in seguito ad un’operazione delle forze speciali algerine. Il gruppo, il cui numero si attesta tra le 400 e le 600 unità, è responsabile di un attentato contro un convoglio dell’Esercito Algerino che ha causato la morte di 11 soldati (Apr 14) e del rapimento della guida turistica francese Herve Gourdel, decapitato secondo le famigerate procedure adottate da Daesh, di cui il gruppo si dichiara alleato. Il gruppo è particolarmente attivo nella parte centro settentrionale dell’Algeria. Anche il Marocco ha goduto di una relativa tranquillità per ciò che concerne il terrorismo jihadista, restando immune, come l’Algeria, alle rivoluzioni nate in seguito alla cosiddetta “Primavera Araba”. Allo stato attuale, la principale minaccia al Paese è rappresentata dai “foreign fighters” di ritorno dai campi di battaglia in Iraq e Siria. Secondo alcuni dati di organizzazioni internazionali, sarebbero 1.600 i marocchini unitisi ai gruppi militanti sunniti nel Levante. Tuttavia, non va trascurata l’embrionale presenza di alcune cellule legate a gruppi provenienti da altri Paesi, come testimoniato dalla cattura avvenuta a Beni Drar, una cittadina nei pressi di Oujda, a meno di 20 chilometri dal confine con l’Algeria, di Hocine Dahous, uno dei militanti di più alto rango di Jund al Khalifa. A quanto pare la sua missione prevedeva il reclutamento di volontari marocchini da addestrare in Algeria e rispedire in Marocco per eseguire attentati.


Condividi su:  
    
News Forze Armate
COMUNICATI STAMPA AZIENDE