RIVISTA ITALIANA DIFESA
Le ragioni dell'italianizzazione dei nuovi mezzi corazzati dell'EI 02/09/2024 | Primo Corazza

Da quando, nel 2020, l'allora Capo di Stato Maggiore dell'Esercito ha messo sul tappeto l'urgente necessità di procedere alla sostituzione dei VCC DARDO (programma AICS/A2CS), si è avviato il dibattito sull'opportunità o meno di avere un mezzo, se non italiano, almeno italianizzato nel sistema di combattimento. Gli oppositori dell'italianizzazione hanno sempre sostenuto che tale scelta avesse solo ragioni di natura industriale.

Ma è veramente così? L'adozione da parte dell'Esercito di mezzi che condividano analoghi sistemi di combattimento ha, invece, molti vantaggi; di natura tattica, logistica e addestrativa.

Partiamo da quelli tattici, che l'esperienza della Guerra Russo-Ucraina ha reso ancora più evidenti. I nuovi scenari multidominio richiedono che le piattaforme sul terreno siano in grado di colloquiare tra loro e interagire direttamente, scambiandosi dati e traendo vantaggio delle reciproche capacità di scoperta, ingaggio e neutralizzazione dei bersagli. Infatti, in un campo di battaglia sempre più trasparente, dove gli elementi operativi per sopravvivere devono aumentare la dispersione ed essere altamente mobili, va sempre più affermandosi come modalità d'ingaggio il "sensor-to-shooter": tale modalità richiede l'interoperabilità piena tra le piattaforme. Tanto per essere diretti ed espliciti, il nuovo carro da battaglia italiano, così come il sostituto del DARDO, non potranno prescindere dalla capacità di interagire direttamente con l'AH-249 FENICE, l'ormai prossimo elicottero da combattimento dell'Esercito, impiegando, in sistema tra loro, i medesimi droni aerei e terrestri. Lo stesso discorso vale per le nuove artiglierie in grado di impiegare munizionamento di precisione a lunga gittata. È la logica del "sistema dei sistemi".

Integrare piattaforme con sistemi di combattimento di diversa origine significa, per contro, rendere l'architettura C5ISR più complessa, meno efficace e anche più vulnerabile ad attacchi cyber. Già questo dovrebbe giustificare l'italianizzazione, ma ci sono ulteriori ragioni per procedere in tal senso.

In campo logistico, stessi sottosistemi significa stessi ricambi e medesimi strumenti di diagnostica, quindi minore complessità dei dispositivi per i rifornimenti e per il mantenimento in efficienza. Il discorso vale anche per bocche da fuoco e munizionamento. Gli Alleati della NATO sanno bene che basta un particolare per rendere non utilizzabile una munizione da un sistema all'altro, pure se si tratta di munizioni apparentemente simili.

Parallelamente alla logistica si muove l'addestramento degli operatori e dei tecnici. Un esempio per tutti: l'Esercito disporrà nel prossimo futuro di circa 500 veicoli da combattimento con cannone da 120 mm, in parte cingolati e in parte ruotati. Avere lo stesso sistema di combattimento significa semplificare non solo la logistica, ma, appunto, anche la formazione e il training. Se così non fosse, si moltiplicherebbero costi e tempi, con diseconomie evidenti e svantaggi tattici.

In sintesi, sistemi d'arma, sistemi di scoperta e d'ingaggio, sistemi di comunicazione e sistemi di comando e controllo diversi portano complessità sul campo di battaglia e questa, a sua volta, aumenta le vulnerabilità ed offre opportunità all'avversario.

La standardizzazione dei sistemi di combattimento delle piattaforme, infine, rende più semplici gli ammodernamenti degli stessi, specie nelle componenti software, dato che in questo caso l’EI dovrebbe confrontarsi con un unico soggetto industriale che detiene la design authority dei mezzi; se nazionale, questo significa anche una maggiore aderenza alle esigenze dello stesso Esercito.

L'italianizzazione delle piattaforme di combattimento, pertanto, è una vera e propria esigenza operativa ed è la base per poter condurre operazioni nel moderno contesto joint e multidominio.

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