Col mese di maggio, assieme alle rose sono fiorite le preoccupazioni, nella ex Iugoslavia che si appresta a festeggiare i 20 anni degli accordi siglati a Dayton nel 1995. Ma se un attentato jihadista a Zvornik, nel “cantone serbo” della Bosnia, e un’azione dimostrativa del “nuovo UCK” contro una stazione di polizia di frontiera in Macedonia avevano creato allarme, ma non tanto da consigliare al Governo macedone di rafforzare la copertura del confine, i 22 morti accertati negli scontri scoppiati 2 giorni fa presso la città di Kumanovo hanno fatto scattare l’allarme rosso anche nei comandi NATO, e nelle cancellerie europee, già preoccupate per i segnali di possibili insurrezioni islamiche in Bosnia-Erzegovina. L’attacco di Kumanovo tuttavia reca la firma dell’estremismo nazionalista albanese, alimentato da ex guerriglieri dell’UCK kosovaro in nome del non dimenticato sogno di una “Grande Albania”, estesa anche ai distretti settentrionali macedoni, popolati a maggioranza da albanesi. Un sogno che, 2 anni dopo il conflitto in Kosovo, aveva già portato la Macedonia a combattere una guerra civile a bassa intensità, con un migliaio di vittime registrate tra febbraio e novembre 2001. Dopo l’indipendenza del Kosovo, nel 2008, le tensioni si sono riattizzate, con sporadici incidenti armati registrati a partire dal 2010, mentre da aprile si assiste (complice anche una grave crisi politica che oppone la coalizione nazionalista e conservatrice al potere a Skopje, e l’opposizione di centrosinistra, con tanto di scandalo alla “Watergate” in salsa macedone) a una continua escalation di azioni di guerriglia. Sabato 9 maggio dal confine kosovaro si sarebbero infine infiltrati una settantina di guerriglieri, in uniforme e bene armati con mitragliatici, mortai leggeri e RPG (tutto materiale facilmente reperibile, dopo la guerra di secessione iugoslava degli anni ’90), che hanno occupato un quartiere periferico della città frontaliera di Kumanovo. Ne sono seguiti scontri su vasta scala, con abbondante impiego di armi pesanti, costati la vita a 14 guerriglieri e 8 militari macedoni, che lamentano una quarantina di feriti. I superstiti del commando attaccante (oltre ai caduti le perdite comprendono anche 30 prigionieri) si è poi ritirato all’arrivo delle forze speciali e dei rinforzi governativi, abbandonando un vero arsenale. Nonostante l’insuccesso tattico, gli insorti hanno diffuso un comunicato per “dichiarare guerra alla Macedonia” a partire dal 12 maggio, minacciando di incendiare i Balcani. Per il Governo di Skopje si tratta di un brutto risveglio. La Macedonia infatti, solo marginalmente coinvolta nei conflitti dell’ex Iugoslavia, costati 300.000 vittime in 10 anni, dispone di Forze Armate di taglia modesta, con meno di 24.000 effettivi. Il grosso dell’arsenale comprende armi ex sovietiche e iugoslave: l’Esercito è diviso in una forza di pronto impiego, e in reparti territoriali e logistici. L’unità di élite è rappresentata dal Reggimento Forze Speciali VOLCI (Lupi), creato nel 1994 e veterano di diverse missioni all’estero, Afghanistan compreso, oltre che del conflitto del 2001, e che può contare sulla Brigata Aerea, con 2 reggimenti di elicotteri da supporto tattico. La componente pesante è invece incentrata sulla 1ª Brigata meccanizzata, con 4 battaglioni di fanteria e uno di artiglieria. La forza aerea, dipendente dall’Esercito, non dispone più di aerei da appoggio tattico (i Su-25, ormai radiati, usati nel 2001) e impiega pertanto solo elicotteri HIND d’attacco, e Mi-17 e HUEY da trasporto, più qualche Bell 206 da osservazione e addestramento.