RIVISTA ITALIANA DIFESA
Gaza, il Libano e il dilemma della leadership israeliana 01/02/2024 | Pietro Batacchi

Da qualche giorno si sono riaccesi scontri di una certa entità nel nord di Gaza e a Gaza City, dopo che gli Israeliani avevano dato ormai sostanzialmente per risolta “la partita” in quest’area della Striscia.

Combattimenti sono segnalati nei quartieri di Zeitoun, Al Rimal e Al Tuffah di Gaza City, ma anche a Jabalyia e Beit Hanoun: tutte aree sotto il controllo delle IDF, ma dove evidentemente i miliziani palestinesi sono ancora in grado di condurre attacchi mordi e fuggi, potendo sfruttare un terreno ancora non completamente ripulito. I Comandi israeliani, superato il picco dell’invasione e la fase ad alta intensità, necessaria per smantellare quanto di più possibile delle infrastrutture di Hamas e Jihad Islamica, hanno iniziato a ridislocare una parte delle truppe nel sud, in particolare a Khan Younis, dove attualmente si svolge il grosso dei combattimenti, e in patria per ricondizionamento o smobilitazione. E ciò ha favorito i Palestinesi poiché è venuto meno uno dei principi cardine delle operazioni di contro-guerriglia: la densità operativa sul terreno, con “buchi” e gap che qualcun altro è stato prontissimo a riempire.

Probabilmente si è trattato di una scelta prematura, ma obbligata, per 2 ragioni, una di ordine interno e una di ordine esterno. La ragione interna riguarda la struttura di Israele, Paese piccolo (9,6 milioni di abitanti) ed economia altamente avanzata, che non può permettersi di impegnarsi a lungo in guerra e mantenere mobilitati 350.000 riservisti: al di là del crollo degli ingressi turistici, infatti, togliere un così alto numero di persone alle normali attività economiche per periodi di tempo prolungati ha un impatto profondo. La Banca Centrale d’Israele ha già stimato il costo della Guerra in 60 miliardi di dollari, oltre il 10% del PIL del Paese, con un rapporto deficit su PIL che quest’anno potrebbe sfondare il 6%. Insomma, la guerra logora la sofisticata e altamente specialistica economia israeliana. La seconda ragione, invece, riguarda il piano regionale. Subito dopo l’avvio delle operazioni militari in risposta alla “sorpresa” di Hamas del 7 ottobre, si è aperto il secondo fronte con il Libano; un fronte a bassa intensità militare fatto di continui, e limitati, attacchi secondo la logica del “tit for tat”, ma con una continua minaccia di escalation che tiene impegnate risorse militari rilevanti, considerato che il temuto arsenale di razzi e missilistico di Hezbollah è intatto non essendo stato finora utilizzato, se non in maniera assolutamente circoscritta e simbolica. E non dimentichiamo la Cisgiordania, con una rivolta aperta che, ancora una volta, impegna risorse militari notevoli.

Ecco, dunque, che la leadership israeliana e il Gabinetto di Guerra riunito attorno al Premier Netanyahu si trovano di fronte ad un dilemma strategico: continuare la guerra a Gaza fino al completo smantellamento di Hamas, ma pagare un prezzo economico e sociale alto, oppure trovare un accordo che, oltre a riportare a casa gli ostaggi, consenta di smobilitare e di riavviare il Paese alla “normalità”, ma lasciando di fatto “in vita” Hamas. Un dilemma sul quale pesa l’incognita Hezbollah e sul quale la guida del Paese è spaccata, con l'estrema destra che preme per andare fino in fondo e Netanyahu che tergiversa, ben consapevole che il suo destino politico è segnato. Insomma, uscire dalla trappola strategica scattata il 7 ottobre potrebbe essere per Israele assai doloroso.

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