RIVISTA ITALIANA DIFESA
Gaza, perché l’invasione ancora non è partita 23/10/2023 | Pietro Batacchi

In molti si chiedono perché l’invasione di Gaza da parte delle forze israeliane non sia ancora iniziata. Le ragioni sono molteplici, tanto di ordine militare quanto politico-strategico.

Iniziamo dalla prime. Gli Israeliani devono completare l’addestramento dei riservisti. Nel 2006, durante la Guerra con Hezbollah, i riservisti furono schierati sul campo senza adeguata preparazione ed i risultati furono pessimi: perdite elevate e problemi di vario genere. Per di più, oggi la riserva mobilitata è di 300.000 uomini, un numero enorme, calibrato sulla base dell'ipotesi di un conflitto duraturo e di un suo eventuale allargamento oltre Gaza e Hamas. Un altro aspetto importante: la pianificazione logistica, che deve essere condotta al meglio per tenere conto di tutte le esigenze possibili di un tipo di conflitto come quello di cui sopra alimentando senza gap e discontinuità una macchina bellica abituata da anni a combattere guerre di breve durata. Ancora una volta il metro di paragone è il 2006, quando ci sono stati reparti rimasti senza acqua per quasi un giorno e mezzo in piena battaglia, ed altri che non hanno ricevuto cibo, neanche le razioni di combattimento. Infine, la cosiddetta Intelligence Preparation of the Battlefield, che nella fattispecie è “appesantita” dalla necessità di individuare i covi degli ostaggi. In questo momento gli operatori dello Shin Bet e dell’elite delle forze speciali, Sayeret Matkal (la Delta Force israeliana) e della Shayetet 13 (la 13ª Flottiglia, i Navy Seals israliani), stanno operando dentro Gaza per condurre la ricognizione degli obbiettivi e dei percorsi, preparando il terreno per l’attacco, ma, appunto, cercando di capire anche dove possano essere tenuti nascosti gli otre 200 rapiti nel blitz di Hamas del 7 ottobre. In questa attività di preparazione è coinvolta anche l’Unità 504 dell’AMAN, l’intelligence militare, che ha il compito di fare la valutazione sulle capacità militari di Hamas a seguito della campagna aerea; campagna condotta con un'intensità senza precedenti in termini di sortite e di distruzione inflitta (tra il 20% ed il 30% degli edifici di Gaza sono stati distrutti o danneggiati).

Venendo alle ragioni politico-strategiche, è chiaro che su Israele pesano i “constraints” legati allo scenario. Il rischio dell’allargamento del conflitto e dell’apertura di un secondo fronte è concreto: da giorni le IDF ed Hezbollah si scambiano “cortesie”: i team controcarro del Partito di Dio colpiscono posti di osservazione, pattuglie e stazioni di comunicazione e intercettazione lungo il confine, e gli Israeliani rispondono con tiri di artiglieria, strike aerei preventivi e attacchi con droni. Il bilancio finora parla di 6 soldati delle IDF e 26 miliziani morti. Per ora il temuto arsenale di razzi di Hezbollah, 8-10 volte superiore a quello di Hamas, non è entrato in gioco, mentre sullo sfondo l’Iran minaccia e muove le sue milizie in Siria, e Israele risponde colpendo gli aeroporti di Aleppo e Damasco. In questo scenario, l’Amministrazione Biden sta tentando di frenare Israele e circoscriverne il più possibile l’azione: gli Americani non vogliono un conflitto regionale nel quale potrebbero restare coinvolti. La congiuntura domestica è quella che è, il rischio shutdown si rimaterializzerà a breve e c’è pure l’Ucraina: tanta carne al fuoco e Washington non può permettersi di sbilanciare il proprio baricentro strategico dando l’impressione a Pechino di minore attenzione e prontezza in Asia- Pacifico. Ma tant’è, moderare Israele significa anche stargli vicino: la portaerei EISENHOWER sta raggiungendo la FORD nel Mediterraneo Orientale e tutto il dispositivo americano in Medioriente è in fase di rafforzamento con nuovi aerei, batterie antiaeree ed antimissile – THAAD e PATRIOT – e soldati.

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