La crisi tunisina, un mix potenzialmente esplosivo tra crisi economica - in parte dovuta alla Guerra in Ucraina e alla guerra del grano - e crisi istituzionale, segna il fallimento definitivo della stagione delle primavere arabe.
Una stagione che non ha fatto altro che minare ulteriormente la stabilità di tutto il Medioriente, originando conflitti di ogni genere e guerre. La foto del Presidente Assad che incontra il Presidente degli EAU, Sheikh Mohamed (MBZ, Mohamed Bin Zayed), le potenze arabe che riaprono le ambasciate a Damasco: altri segni di questo fallimento.
Oggi, di quella stagione non resta più, dunque, neanche il caso virtuoso della democrazia tunisina, con un Paese diviso tra l’autocrate conservatore-indipendente, il Presidente Saied, e la Fratellanza Musulmana, laddove quest’ultima è strutturalmente incompatibile con i valori occidentali della liberal-democrazia di massa. Chi aveva innescato quella stagione, l’Amministrazione Obama, non ha ha poi voluto o saputo governarla/guidarla, come si converrebbe rispetto a processi e fenomeni così complessi, e a un certo punto “è sparito”. Altri, Francesi e Inglesi, hanno opportunisticamente cercato di ottenerne vantaggi ai danni di alleati come l’Italia, nel caso della guerra di Libia nel 2011, e altri ancora ne hanno approfittato per entrare dove erano assenti, la Turchia, o rientrare dove non c’erano più, la Russia. Un disastro, insomma, che ha toccato direttamente il nostro interesse nazionale.
Ecco, in questo scenario un Paese normale, dipendente per la sua sicurezza e il suo benessere dal Mediterraneo, avrebbe dovuto da anni dotarsi di una politica autonoma per la regione e perseguirla, con la diplomazia e con la forza, senza complessi e senza paure. Invece, nulla. Il Libro Bianco della Difesa del 2015 e la “Strategia di Sicurezza e Difesa per il Mediterraneo” degli ex Ministri Pinotti e Guerini, rispettivamente, vuoi per una ragione, vuoi per un’altra, sono rimasti lettera morta: ottime basi di partenza ma se poi non c’è la volontà e la forza politica di applicare una strategia, la strategia stessa resta un bell’esercizio incompiuto.
Ed oggi ci risiamo. L’Italia è nuovamente alle prese con l’instabilità del suo fianco meridionale, mentre è massicciamente e militarmente impegnata per difendere il fianco orientale della NATO: uno strabismo che se non gestito con equilibrio può essere pericoloso per i nostri interessi. Il punto di fondo è questo, fermo restando l’interesse fondamentale rappresentato dalla nostra appartenenza alla NATO e dal rapporto bilaterale con gli USA, mai come oggi l’Italia – e qui ci rivolgiamo direttamente al nuovo governo – ha bisogno di una politica autonoma per il Mediterraneo. Gli Americani oggi guardano da altre parti e con una minaccia terroristica ridimensionata hanno poco o punto interesse per il fianco sud, con i Francesi il riapproccio in Mali è andato come andato (Mali oggi governato da Prigozhin), gli Inglesi stentano in generale pagando le conseguenze della Brexit. Non abbiamo, dunque alternativa al “fare da noi”.
Come? Occupandoci in prima persona della stabilità di quest’aerea: investendo economicamente, coltivando nuove élite politiche, stringendo rapporti militari bilaterali e articolando una nostra presenza militare, discreta ma robusta, in tutta l’area. Un reticolo di Stand In Forces, per addestrare i partner locali, per fare info-ops, e ricognizione e contro-ricognizione, per fare da deterrente ma, in caso di escalation, per fornire una prima capacità di risposta. Insomma, l’Italia deve occuparsi da sé del Mediterraneo combinando in una strategia chiara e coerente tutte le leve di potenza - economiche, culturali/comunicative, strategiche e militari – a prescindere dagli alleati, i cui interessi non è detto combacino con i nostri e la cui volontà non è detto sia coincidente con la nostra. Facciamolo. Lo dobbiamo ai nostri figli.
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