RIVISTA ITALIANA DIFESA
Foreign fighters: il problema 13/01/2015 | Pietro Batacchi e Andrea Mottola

Il raid effettuato da un commando di 3 uomini contro la sede del magazine satirico francese Charlie Hebdo, ha riacceso il dibattito sui cosiddetti foreign fighters, o “rientrati”, vale a dire quei cittadini europei di fede islamica che sono ritornati nei loro paesi d’origine dopo aver combattuto per anni sui campi di battaglia di Medio Oriente e Nord Africa.

Ad oggi sarebbero almeno 4.000 gli europei (2.000 britannici, 930 francesi, 450 tedeschi, 300 svedesi e altrettanti belgi, e un centinaio di italiani) partiti per combattere in Iraq, Siria, Libia e Mali, tra le fila di gruppi jihadisti quali ISIL, al-Nusra, Ansar al-Sharia o Ansar al-Dine. Di questi, circa 5-600 sarebbero rientrati in Europa, 53 dei quali solo in Italia secondo le recenti stime del Ministero degli Interni. In realtà, a nostro avviso in Italia ce ne sarebbe qualcuno in più: non meno di 70-80. Quello dei foreign fighters non è certo un fenomeno nuovo. Esistono altri casi, nella storia recente, che hanno visto il coinvolgimento di cittadini europei in conflitti avvenuti in paesi islamici: Afghanistan, Caucaso e Somalia, ad esempio. Ma l’elemento che emerge, rispetto a tali conflitti, sta proprio nel numero di questi foreign fighters e nella loro pericolosità testimoniata anche dall'attacco contro Charlie Hebdo. Come abbiamo già avuto modo di discutere i video mostrano freddezza, precisione e determinazione dei membri del commando, tutti elementi che evidenziano modalità e coordinamento militare. Un attacco, insomma, condotto da persone abituate a muoversi in certi contesti, piuttosto che da cosiddetti “lupi solitari” o autoradicalizzati dell’ultim’ora, come i fratelli Tzarnaev, responsabili dell’attentato alla maratona di Boston dell’aprile 2013, o come Man Haron Monis, protagonista del recente sequestro in un caffè nel centro di Sydney.Questi soggetti sono spesso inseriti in una rete di supporto logistica e di contatti strutturata,formata da simpatizzanti, persone autoradicalizzate ma anche da chi è rientrato dai fronti dello jihad, e hanno accesso ad armi di diverso tipo od esplosivi provenienti dal mercato nero attraverso canali che si dipanano soprattutto via Libia.

Non è semplice attuare delle contromisure efficaci per combattere il fenomeno. L’implementazione della cooperazione già in atto tra le agenzie di intelligence europee, e non solo, può sicuramente essere uno strumento importante, così come uno stretto controllo di polizia sui soggetti ad alto rischio radicalizzazione. Tuttavia, come dimostrato dalla scarsa preparazione dei servizi di intelligence e sicurezza francesi nell’attacco a Charlie Hebdo, risulta estremamente difficile prevenire attacchi così ben pianificati che coinvolgono un numero molto ristretto di partecipanti.A rendere l’individuazione di profili pericolosi ancor più difficile è il fatto che l’avvicinamento al jihadismo non avviene più attraverso la frequentazione delle moschee radicali del Vecchio Continente, molte delle quali da anni sotto il controllo dai servizi di sicurezza. L’avvicinamento di diversi di loro all'Islam radicale avviene, infatti, oggi nelle carceri, soprattutto in Francia, ma per altri il reclutamento passa per canali più sfuggenti e per percorsi di identificazione “meno tradizionali” (palestre, manifestazioni).

Molti Paesi stanno creando leggi ad-hoc per contrastare la minaccia dei “rientrati”, che spesso prevedono, come primo passo, la firma di un accordo con la Turchia per monitorare il corridoio preferenziale utilizzato dai jihadisti europei per raggiungere il teatro siriano. Olanda e Inghilterra sono in procinto di approvare leggi molto dure, che vanno dal ritiro del passaporto di sospetti terroristi, alla revoca della cittadinanza fino ad arrivare, nel caso inglese, al processo per tradimento. Completamente diverso l’approccio della Danimarca, che offre ai propri cittadini l’opportunità di rientrare, ricevere una “riabilitazione” ed essere reintegrati nella società senza subire alcun processo. In pratica, il governo e le agenzie di intelligence coordinano il rientro dei combattenti che desiderano ritornare, offrendogli cure mediche e occupandosi della ricerca di un lavoro. Approccio interessante quello danese, tenuto conto del valore che può avere un “rientrato” che viene reintegrato nella società senza particolari conseguenze, potendo fornire informazioni vitali sui gruppi jihadisti in cui ha combattuto e scoraggiare altri aspiranti jihadisti dall’unirsi ad essi.

Anche l’ONU è scesa in campo per contrastare il fenomeno foreign fighters. La risoluzione, approvata lo scorso 24 settembre per fronteggiare tale fenomeno, punta infatti a rafforzare la rete di controllo globale dei confini nazionali, coinvolgendo le linee aeree affinché forniscano agli Stati dei territori in cui operano informazioni su passeggeri in partenza o in transito verso determinati Paesi. Inoltre, la risoluzione prevede anche la possibilità di includere nella cosiddetta Al-Qaeda Sanction List, una lista di sanzioni a carico di personalità legate al terrorismo, tutti coloro che reclutano, finanziano o facilitano il movimento dei foreign fighters. Anche in questo caso esistono alcuni dubbi sulla reale efficacia e sulla concreta applicazione di tale risoluzione. In particolare, ciò che risulta poco chiaro sono le modalità attraverso cui l’Unione Europea tenterà di rendere operativa la risoluzione dell'ONU. Va evidenziato, infatti, come la legislazione sui controlli aeroportuali è in parte responsabilità anche delle istituzioni europee; un’applicazione della risoluzione, quindi, dovrebbe avvenire su base comunitaria. Il tema dei foreign fighters e, più in generale, un'analisi sulle lezioni apprese dagli attacchi di Parigi sarà trattato in modo più approfondito anche su RID 2/2015 in edicola dal 26 gennaio.


Condividi su:  
    
News Forze Armate
COMUNICATI STAMPA AZIENDE