
La conferenza di Berlino 2 sulla Libia si chiude con più dubbi di quelli con cui si era aperta. Il lunghissimo comunicato finale (58 punti divisi in 6 sezioni) ripete richieste e promesse che sono già state messe nero su bianco in altri documenti, dalle conclusioni di Berlino 1 all’accordo per il cessate il fuoco (rispettivamente gennaio e ottobre 2020). Il nuovo testo reitera la data delle elezioni, previste sempre per il 24 dicembre 2021, ma non segna passi in avanti per il loro corretto svolgimento. Così come sottolinea la necessità di sciogliere al più presto i nodi principali della crisi libica: la partenza delle migliaia di mercenari stranieri (l’ONU ne stima 20.000), l’approvazione di una base costituzionale per svolgere le elezioni, il rinnovo delle cosiddette posizioni sovrane (i vertici delle principali istituzioni economico-finanziarie, dalla Banca Centrale in giù), la necessità di riunificare al più presto le Forze Armate e di procedere alla risistemazione degli apparati di sicurezza. Temi su cui finora i progressi sono stati molto pochi, quasi impalpabili. Le conclusioni della conferenza non danno indicazioni più precise né forniscono nuovi elementi per coltivare un ragionato ottimismo. In teoria il vertice in Germania cade in una fase propizia alla soluzione della crisi libica. Nel Mediooriente allargato, da alcuni mesi, si sta delineando una pausa strategica nei conflitti che innervano la regione, da cui sono scaturiti la distensione tra i Paesi del Golfo e un dialogo sotterraneo tra Riad e Teheran, un tentativo di riavvicinamento fra Turchia ed Egitto e un rasserenamento della situazione nel Mediterraneo Orientale. Un quadro che ha impattato anche sulla situazione in Libia, favorendo l’insediamento di un nuovo Governo di Unità Nazionale lo scorso febbraio e l’avvio di una nuova fase della crisi in cui parla la diplomazia e le armi (più o meno) tacciono. Ma non è abbastanza da sbloccare davvero le questioni più controverse, rispetto alle quali l’atteggiamento degli attori esterni resta di attendismo. La conferenza di Berlino 2 riflette questo stato di cose e lascia ipotizzare che sia mancato un quadro politico sufficientemente stabile, scaturito dal reale allineamento degli attori esterni, al cui interno negoziare poi i dettagli tecnici. Anche l’aggiunta del Governo libico come effettivo partecipante al vertice sembra rispondere più al bisogno di puntellare le nuove istituzioni di transizione, che a quello di inserire un attore in grado di mediare tra le parti o contribuire in modo incisivo al processo di transizione. La questione dei mercenari è esemplificativa. L’articolo 5 delle conclusioni chiede il ritiro di “tutte le forze straniere e i mercenari”, quindi anche dei militari turchi che sono presenti in Libia in base all’accordo bilaterale fra Tripoli e Ankara. Il testo non è cambiato rispetto alla bozza iniziale, trapelata alla vigilia del vertice, ma la Turchia ha espresso una riserva su questo punto, pur firmando il documento. Erdogan nei giorni scorsi si è detto disposto a ritirare i mercenari siriani, ovviamente nel quadro di un ritiro generale anche dei mercenari rivali, tra cui i Russi del Gruppo Wagner. Francia e Emirati hanno spinto su questa versione del testo, la Turchia ha tenuto il punto senza far saltare il banco, la Russia ha direttamente abbassato il livello di rappresentanza mandando non il Ministro degli Esteri Lavrov ma il suo vice, Sergej Vershinin. Il testo delle conclusioni, inoltre, non prevede nessun meccanismo specifico per l’implementazione del ritiro. In conferenza stampa, però, il ministro degli Esteri Tedesco Heiko Maas ha assicurato che il ritiro coinvolgerà forze regolari e mercenarie, sarà graduale, e bilanciato per evitare che una delle parti ne approfitti per rafforzare le sue posizioni. Anche la sua omologa libica, Najila Mangoush, ha menzionato progressi importanti su questo tema, tanto da sbilanciarsi ed affermare che il ritiro si verificherà “sperabilmente nei prossimi giorni”. Dichiarazioni che sembrano contrastare con l’incapacità di trovare una formula condivisa dai partecipanti e che fa intravedere quanto, per i rivali della Turchia, resti importante evitare che Ankara riesca a tenere stabilmente una presenza militare nel Paese. Una fonte statunitense anonima, però, ha confermato all’Associated Press che Russi e Turchi starebbero effettivamente contrattando un ritiro graduale dei loro mercenari, anche se l’accordo non sarebbe ancora siglato. In ogni caso, sembra probabile che tale presunto accordo riguardi i mercenari siriani che combattono in Libia su entrambi i fronti, ma non i consiglieri turchi né gli effettivi della Wagner. Va rilevato che anche se venisse raggiunto un accordo informale sul ritiro dei combattenti stranieri (magari seguito a breve da qualche movimento di truppe sul terreno, per quanto cosmetico), la sua tenuta sarebbe messa a dura prova visti i molti inciampi possibili: dalle reticenze turche sui propri militari, che Ankara vede come legittimamente presenti sul suolo libico, alle migliaia di mercenari ciadiani, sudanesi e di altri paesi subsahariani ancora gravitanti attorno alle fazioni libiche rivali, per non citare i lavori di risistemazione di alcune basi militari nella parte centrale del Paese da parte del Gruppo Wagner, che non preludono a un ritiro in breve tempo. Non giova poi l’operazione militare condotta in questi giorni da Haftar nel Fezzan, dove si è rafforzato nel capoluogo Sebha e ha preso il controllo di alcuni valichi di frontiera al confine algerino (Ghat), probabilmente proprio con l’aiuto russo. Si registrano, è vero, piccoli progressi positivi in questo ambito, come l’annuncio della riapertura della strada costiera tra Misurata e Bengasi. Era un nodo importante perché apre all’arrivo sul campo degli osservatori dell’ONU con il compito di monitorare il cessate il fuoco e rilevare, probabilmente, l’avanzamento del ritiro dei mercenari. L’arrivo effettivo del personale delle Nazioni Unite e la sua effettiva libertà di manovra saranno indicatori dei progressi su questo fronte. In questo quadro, l’ostinazione con cui la diplomazia internazionale sottolinea la necessità di svolgere le elezioni a dicembre, senza però nulla specificare sui passaggi intermedi necessari per assicurarne il buon esito, paradossalmente può trasformare la data del 24 dicembre in un ulteriore ostacolo al processo di pacificazione della Libia. Una finestra temporale che ormai (mancano 6 mesi esatti) rischia di essere troppo ristretta anche per misurare dei progressi concreti su altri fronti, come quello delle posizioni sovrane, quello della redistribuzione interna delle risorse, quello della riunificazione delle Forze Armate, e quello della riforma del settore della sicurezza, dove molti attori (libici e non) hanno ancora la possibilità di rallentare o impedire nuovi sviluppi.