
E’ la seconda dimensione del conflitto Israele-Iran: quella marittima. Il Wall Street Journal ha rivelato che gli israeliani hanno condotto, dal 2019, una dozzina di attacchi contro petroliere iraniane dirette in Siria. Un’azione sistematica per interrompere rifornimenti in favore del regime, ma anche un “raddoppio” rispetto ai raid aerei condotti in territorio siriano per distruggere missili ed equipaggiamenti inviati sempre dagli ayatollah. Interessante che, qualche ora dopo lo scoop, da Teheran hanno sostenuto che una loro portacontainer, diretta in uno scalo in Siria, era stata colpita, episodio che aveva causato un principio di incendio. La storia è stata accolta con prudenza, anche se qualche osservatore l’ha collegata al sabotaggio di una nave israeliana, la HELIOS RAY, danneggiata qualche settimana fa nel Golfo di Oman. Allora si è parlato di mine. Ora, andando oltre i singoli eventi, è chiaro che siamo entrati in una fase piuttosto delicata, con un confronto geograficamente esteso. Tutta l’area che va da Hormuz fino al Mediterraneo è suscettibile di sorprese, con il traffico civile che diventa un bersaglio. Uno scenario non inedito – in passato Usa e Israele hanno intercettato cargo sospettati di trasferire armi – ma che ora vede molti attori. Fazioni guerrigliere e Marine militari di paesi minori perfezionano tecniche, adattano mezzi o ne comprano di nuovi per condurre una guerra che spesso definiamo “segreta”, anche se poi avviene sotto gli occhi di tutti. Con un doppio fronte. Oltre a quello offensivo, c’è la componente difensiva: tutela dei porti, protezione delle proprie rotte, lavoro di intelligence a lungo raggio. Da qui le missioni dei sottomarini e lo sviluppo di navi-madre pensate per sostenere incursori.