Il Caucaso torna ad infiammarsi. Da 2 giorni, infatti, sono ripresi, e su vasta scala, i combattimenti tra armeni e azeri attorno all’enclave del Nagorno-Karabakh, la regione a maggioranza armena ma inclusa nel territorio dell’Azerbaijan, di fatto controllata dall’Armenia dopo la guerra conclusasi nel 1994. In 48 ore si parla già, sebbene con toni di propaganda, di centinaia di caduti, cittadine bombardate, gravi perdite di materiali, ecc. Il primo conflitto era costato 30.000 morti, e iniziato in forma di scontri etnici già nel 1988, durante la fase di declino dell’URSS, che nella regione aveva gestito il potere più all’insegna del vecchio “divide et impera”, che delle teorie di Marx. Quando nel 1991 il gigante sovietico era collassato, Armenia e Azerbaijan erano divenute repubbliche indipendenti, ereditando assieme agli arsenali ex sovietici anche il conflitto per il controllo del Nagorno-Karabakh, spentosi nel 1994 con un cessate il fuoco e con la vittoria armena. La Repubblica del Nagorno-Karabakh, non riconosciuta dall’ONU, è di fatto integrata – apparato militare compreso – nello stato armeno, che gode del supporto di Mosca, che nella regione schiera basi militari e aeree, con 4.000 uomini. Baku, forte del suo status di potenza petrolifera, ha invece stretti legami con Occidente, soprattutto con l’Italia, prima destinataria dell’export petrolifero azero, Israele e Turchia: e in queste ore a gettare benzina sul fuoco c’è proprio il “sultano” turco Erdogan, mentre la Russia ha una posizione più moderata, ma schierata con l’Armenia. Dopo il 1994 in realtà tensioni e incidenti armati non sono mai cessati, e già nell’aprile 2016 sfociarono nella cosiddetta “guerra dei 4 giorni”, costata alcune centinaia di morti e feriti, con la perdita di qualche postazione difensiva e di mezzi corazzati e aerei da ambo le parti. Un sanguinoso stallo che in questi anni ha innescato una mini-corsa al riarmo (per Baku favorita dai proventi petroliferi, per Yerevan supportata da Mosca), mentre riprendevano gli incidenti quasi quotidiani. Il più grave ha innescato un primo conflitto a partire dallo scorso 12 luglio, quando si sono registrati scontri anche con armi pesanti, che danno “il tono” al livello della contesa, rispetto alle frequenti scaramucce tra pattuglie con raffiche di mitragliatrice e qualche colpo di mortaio. Ma oltre ad essere ben presto stati caratterizzati da una violenza non più registrata dal 2016, i nuovi scontri si sono svolti, in maniera del tutto inedita e decisamente allarmante, nel settore frontaliero di Tavush; ossia nelle regioni di confine del nord, a centinaia di km dal Nagorno-Karabakh tradizionalmente conteso. Scontri durati per 5 giorni, nella fase più violenta, con l’impiego di artiglieria, blindati e UAV, e 15-20 morti e decine di feriti, sebbene sui numeri pesi – anche oggi – una guerra di opposte e virulente propagande, che non consentono valutazioni precise. Più sporadici incidenti sono proseguiti sino a fine luglio, mentre tra agosto e settembre si intensificavano le esercitazioni militari: in collaborazione con Mosca quelle sul lato armeno; col supporto turco, e la presenza di miliziani siriani filo-turchi (sorta di “legione straniera” messa in piedi da Erdogan per intervenire nelle zone di interesse strategico, dalla Siria alla Libia), quelle azere. Poi, domenica 27 settembre, la ripresa dei combattimenti su vasta scala nel Nagorno-Karabakh. Anche questa volta, la propaganda ha gettato la sua pesante cortina fumogena sugli eventi. I 2 paesi ormai quasi in guerra aperta – entrambi hanno dichiarato legge marziale e mobilitato i riservisti – si accusano reciprocamente di aver sparato il primo colpo. Il governo armeno (tra i 2 il più improntato a modelli democratici, ma comunque fortemente nazionalista e legato a Mosca) accusa Baku di aver bombardato anche con missili a lunga gittata Stepanakert, capitale del Nagorno-Karabakh. Il governo azero, dal 1993 controllato dalla “dinastia” degli Alyev – già potente sotto l’URSS, ma dal profilo moderato e attenta ai rapporti con le democrazie occidentali -, controbatte accusando le milizie armene di aver aperto il fuoco sui villaggi confinari. Anche circa i primi scontri, le notizie sono contraddittorie. Baku usa toni trionfalistici, rivendicando di aver conquistato in 48 ore 7 villaggi, ucciso o ferito 550 soldati nemici, distruggendo 40 tra carri e VCC, UAV, semoventi, e bombardato 12-15 batterie antiaerei. Yerevan parla di 200 soldati azeri caduti, 45 tra carri e IFV distrutti, assieme a 4 elicotteri e 27 droni abbattuti, negando perdite territoriali. Fonti indipendenti valutano sinora in 40 morti e 100 feriti circa le perdite, civili compresi (qualche granata sarebbe caduta anche nel vicino territorio iraniano), mentre i video diffusi mostrano almeno 3 o 4 mezzi corazzati azeri colpiti, i rottami di alcuni velivoli abbattuti, e postazioni SAM e radar armene colpite. Oltre a case danneggiate dai bombardamenti, e civili come al solito finiti tra incudine e martello.