RIVISTA ITALIANA DIFESA
I missili navali cinesi 29/06/2020 | Massimo Annati

La Cina ha ormai raggiunto la seconda posizione nella graduatoria virtuale delle flotte militari mondiali, superando di gran lunga le capacità di altri Paesi, come Russia, India, Giappone, Regno Unito e Francia. Vi sono però altri 2 aspetti che devono far riflettere. Il primo è che la prima potenza marittima mondiale, la US Navy, è impegnata su tutto il globo, cosa che la costringe a spalmare le sue forze su una moltitudine di teatri e di impegni. Attualmente (marzo 2020) vi sono 4 portaerei in operazioni in acque lontane dagli Stati Uniti: 2 sono impegnate simultaneamente nel Medio Oriente, una è basata in Giappone ed una sta operando nel Mar Cinese Meridionale. Altre 2 portaerei sono in Patria, rispettivamente costa occidentale e costa orientale, e altre 6 non sono pronte, essendo in manutenzione, in qualificazione/addestramento, o in riposo dopo un lungo deployment. Il secondo aspetto è la velocissima crescita vissuta dalla Marina Cinese: nel solo 2019 sono stati varati 8 cacciatorpediniere Type-052D e 2 Type-055. Per confronto, negli Stati Uniti nel 2019 è stato varato un solo caccia classe BURKE. Le 2 altre maggiori Marine occidentali, la britannica Royal Navy e la giapponese MSDF, a loro volta dispongono ciascuna di 6 unità da difesa aerea, ovvero meno di quante ne siano state varate in un anno solo in Cina. Secondo una nota leggenda, Lenin disse che i capitalisti avrebbero cercato di vendere ai comunisti la corda con cui sarebbero poi stati impiccati. La storia, lo sappiamo, non è andata così, ma lo sviluppo economico e tecnologico della Cina risponde bene a questa leggenda. Le cosiddette “Quattro Modernizzazioni” lanciate da Deng Xiaoping, comprendevano: Agricoltura, Scienza e Tecnologia, Industria e Difesa. Le ultime 3, combinate, hanno consentito alla Cina di dotarsi di uno strumento militare all’avanguardia. Il mondo industriale occidentale ha entusiasticamente trasferito quote sempre maggiori delle proprie linee di produzione in Cina. Il concetto che ispirava questa scelta era evidente: si sarebbe potuto disporre di beni realizzati con costi inferiori che, nelle miopi speranze degli industriali occidentali, avrebbero consentito di guadagnare ampie quote di mercato, sbaragliando la concorrenza. In realtà si è trattato di un enorme trasferimento di tecnologia e know-how, consentendo così alla Cina di acquisire in brevissimo tempo grandi capacità autonome, sia produttive che progettuali. La Cina gode infatti anche del beneficio di avere una sterminata popolazione da cui poter attingere i migliori talenti. Le università cinesi sfornano ondate di ingegneri, informatici, fisici e chimici con un’ottima preparazione. I migliori vengono inviati anche all’estero dove acquisiscono ulteriori conoscenze, e spesso collaborano ad un’efficiente attività di spionaggio industriale, in sistematica violazione dei diritti di proprietà intellettuale.

Tutto l'articolo è disponibile su RID 7/20.


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