RIVISTA ITALIANA DIFESA
La Turchia, i Curdi e le armi italiane 16/10/2019 | Pietro Batacchi

Sta imperversando in queste ore il dibattito sull’export militare italiano alla Turchia. Sul livello e sui toni di tale dibattito – in alcuni casi molto simili a quelli del ballatoio permanente dei Social – non discutiamo, e lasciamo ogni giudizio a lettori e addetti ai lavori. Vorremmo però fare alcune riflessioni sulla questione basate su dati empirici. La Turchia è (finora) un Paese NATO ed un Paese che solo fino a pochi anni voleva disperatamente entrare in Europa, poi qualcuno, leggi la Francia, le ha sbattuto la porta in faccia per ragioni di equilibri interni al Vecchio Continente. In parte ciò che è venuto dopo, ovvero il neo-ottamanesimo di Erdogan, è spiegabile anche con quel “no”. Detto questo, la Turchia ha continuato ad essere un partner strategico per l’Italia, ma anche per altri Paesi: dagli USA, alla Germania, solo per citare i più importanti. Troppo importante la sua collocazione strategica per lasciare che Ankara finisse armi e bagagli nell’orbita di Mosca scivolando di fatto fuori dalla NATO. Purtroppo, negli ultimi 2 anni ci si sta avvicinando pericolosamente a questa soglia con la Turchia sempre più vicina alla Russia e più lontana dal suo tradizionale perimetro di alleanze. Le responsabilità non sono solo del Sultano Erdogan, ma anche dell'Occidente, Americani in primis; basti pensare al record di pessime scelte sul Medio Oriente compiute da Washington negli ultimi 16 anni. In questo contesto si inserisce e va letta la questione specifica dell’export militare. Le forniture italiane alla Turchia si inseriscono nel quadro di un’alleanza, la NATO, e di una cooperazione che esiste ormai da 40 anni. Il nostro export è regolato da leggi molto rigorose, è soggetto alle autorizzazioni del Governo ed è regolarmente controllato dal Parlamento. L’attore principale è inoltre Leonardo, un’azienda il cui azionista di comando è il MEF (Ministero Economia e Finanze), ovvero il Governo. Per cui tutto avviene entro un quadro legale, prevedibile e consolidato, che, certo, può adesso cambiare per volontà politica, ma attenzione... Le commesse militari creano forti relazioni con altri Paesi, relazioni di tipo strategico, che consentono di controllarne in qualche modo la politica di difesa e sicurezza – in quanto creano dipendenza in termini di supporto, manutenzione, addestramento, assistenza di vario tipo, ecc. - ma pure di avere un vantaggio competitivo nel caso peggiore di un eventuale conflitto visto che l’esportatore conosce il sistema d’arma di quel destinatario che ad un certo punto dovesse decidere di “cambiare bandiera”. Per cui esportare armi non solo alimenta un’industria ad altissima tecnologia e competitività come quella della difesa – laddove nei settori a minore contenuto tecnologico i Paese emergenti hanno da tempo ampiamente superato l’Italia – con rilevanti ritorni pure in termini di occupazione specializzata, ma garantisce un’influenza su alcuni Paesi che altrimenti non esisterebbe. E questo discorso vale pure per la Turchia che ha sì un’industria nazionale sempre più capace, ma che è comunque ancora dipendente dall’esterno in diversi settori. Una dipendenza che può consentire di moderare l'iniziativa di Erdogan nel Nordest della Siria. Rinunciare a certe leve, dunque, significherebbe rinunciare ad avere capacità di incidere sul piano internazionale. Certo, si potrebbe sempre vendere alle sole liberal-democrazie, ma il mondo purtroppo non è fatto solo di liberal-democrazie. Per cui pensiamoci bene prima di compiere scelte avventate...


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