RIVISTA ITALIANA DIFESA
Petroliere in fiamme, una prima analisi 14/06/2019 | Andrea Mottola

Ad oltre 24 ore dalle esplosioni che hanno gravemente danneggiato la Front Altair e la Kokuka Courageous cominciano ad emergere pochi, ma interessanti dettagli. In primis, come spesso accade in questi casi, vengono chiarite alcune circostanze, come quella del coinvolgimento giapponese, che, al momento, non appare di primaria importanza. Vero è che le esplosioni si sono verificate poco dopo l’incontro tra il leader iraniano Khamenei ed il Primo Ministro Abe, quest’ultimo in veste di negoziatore nelle trattative tra Iran e USA. Le navi, tuttavia, col Giappone c’entrano poco o nulla: la Front Altair batteva bandiera panamense ed è riconducibile ad una società norvegese; la Kokuta Courageous battente bandiera delle Isole Marshall, appartiene sì ad una società giapponese, ma operava sulla rotta Arabia Saudita-Singapore (mentre la Front Altair, seguiva una rotta tra Emirati e Taiwan. Alcune fonti collegano l’attacco ai danni della KC con la profonda insoddisfazione iraniana a seguito dell’incontro con Abe, ma appare un’ipotesi stiracchiata. Le tempistiche nella preparazione e nell’esecuzione degli attacchi, nonché la scelta dei bersagli da colpire non sembrano collegare le circostanze. Peraltro non si spiegherebbe l’attacco contro una nave norvegese

Dal punto di vista operativo, considerando che le esplosioni sono avvenute a breve distanza tra loro - (tra le 6 e le 6.50 ora locale) stando agli allarmi inviati dalle navi - e ad oltre 20 miglia dalle coste iraniane (e tra le 60 e le 70 da quella omanita), risulta difficile pensare ad un attacco in pieno giorno e a tale distanza dalle coste effettuato tramite barchini/incursori che sarebbero stati facilmente identificabili dagli equipaggi. Stesso dicasi per il lancio di siluri, che avrebbe implicato l’utilizzo di assetti aerei (ad ala fissa o variabile) o navali di superficie, anch’essi identificabili dal personale di bordo, nonché dai sistemi di sorveglianza radar aerea e costiera e dalle varie piattaforme aeree ISR presenti nell’area (EAU, Iran, Oman, USA,). Certo, il discorso cambierebbe nel caso di un lancio effettuato da un sommergibile, circostanza che non può aprioristicamente essere eliminata e che lascia ancora un piccolo spazio alla possibilità che sia stato utilizzato almeno siluro nel caso della Front Altair, anche se le immagini mostrano uno squarcio ben al di sopra della linea di galleggiamento. Quest’ultimo elemento, nonchè la posizione geografica, i riscontri nelle testimonianze degli equipaggi, nonché le immagini successive alle esplosioni, tuttavia, fanno pendere decisamente l’ago della bilancia a favore di un qualche dispositivo (carica esplosiva a tempo, mine a base magnetica) piazzato sulle carene delle 2 navi quando si trovavano ancora nei porti di partenza (Fujairah ed Al-Jubail), eliminando quasi definitivamente l’ipotesi di un attacco tramite lancio di siluri, a meno di non voler considerare il coinvolgimento di un sottomarino. Stabilire con un certo grado di certezza l’autore di tali attacchi è estremamente complesso, come dimostrano le esplosioni che hanno danneggiato 4 petroliere emiratina, norvegese e saudite dello scorso maggio fa al largo delle coste emiratine, e mai rivendicate da gruppi armati o entità statuali. Una discriminante che può aiutare a “scremare” la lista di colpevoli, sta nell’identificazione simultanea di chi può avere interesse ad intraprendere tali azioni e di chi ne ha le capacità. Una prima risposta l’ha data il Segretario di Stato Mike Pompeo, che ha apertamente accusato l’Iran, adducendo “che gli attacchi hanno evidenziato un elevato livello di sofisticatezza, expertise e risorse che nessun proxy group dell'area può vantare". A supporto della dichiarazione di Pompeo, ci sono 2 elementi: uno storico e uno circostanziale. Il primo è legato all’enorme esperienza che l’Iran ha nell’utilizzo di mine navali di vario genere ai danni di petroliere, come testimoniato proprio dalla cosiddetta “guerra delle petroliere” tra 87/88, dimostrando capacità di infliggere danni tramite operazioni più o meno “coperte” nei confronti di bersagli scelti ad alto valore strategico o propagandistico, senza necessariamente utilizzare strumenti più drastici, quali il blocco navale dello stretto di Hormuz. Il secondo elemento riguarda il fatto che, nelle ultime ore, sono stati pubblicai video ed immagini (vedi sopra) della US Navy, in cui viene ripresa un’imbarcazione militare veloce di tipo Gashti appartenente alla Marina iraniana/Pasdaran, il cui equipaggio sembra impegnato a rimuovere un qualche dispositivo inespoloso dalla chiglia di una delle navi.

Oltre all’Iran, tuttavia, almeno altri 4 paesi nell’area avevano interesse e capacità di effettuare tali azioni: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Israele e Stati Uniti, in rigoroso ordine alfabetico. Tutti paesi che avrebbero potuto orchestrare un simile attacco con il preciso intento di far ricadere la colpa sul nemico – per tutti – iraniano. Dall’Arabia Saudita – in particolare dal terminal petrolchimico di Al-Jubail - è partita la Kokuta Courageous e sono ancestrali le frizioni tra Riad e Teheran. Peraltro, 24 ore prima delle esplosioni sulle navi, la piattaforma petrolifera iraniana 9, situata nel bacino di Pars sud (Golfo Persico), aveva subito un attacco cibernetico, di probabile provenienza saudita, che ha causato l’esplosione del generatore ed un incendio. Non si può escludere che i 2 episodi possano essere collegati e ci sia la stessa regia dietro. Dal punto di vista operativo, i sauditi hanno mezzi ed expertise per effettuare attacchi simili. Inoltre, va considerata anche la possibilità di una qualche forma di coordinamento con le FS del vicino vassallo emiratino (dagli EAU è partita la Front Altair), o del neo “alleato” israeliano (magari presente con un distaccamento di incursori di Marina Shayetet-13), entrambi nemici dichiarati dell’Iran, l’uno “per procura” e “vicinanza” politico-religiosa a Riad, l’altro impegnato da anni in una guerra d’attrito in Siria (e non solo) contro il Regime islamico iraniano. Ovviamente, dal punto di vista capacitivo e tenuto conto della capillare presenza in zona, non si può escludere che dietro gli attacchi contro le 2 navi ci sia stata la partecipazione americana, magari con l’obiettivo di creare un pretesto per un’operazione stile “Iraq 2003”, per quanto si tratti di uno scenario improbabile, tenuto conto delle dovute differenze tra Iran di oggi ed Iraq di allora, e dell’impegno diplomatico profuso dagli USA, anche tramite i suoi più stretti alleati - vedi il coinvolgimento del Giappone - nei confronti di Teheran.


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