Sono centinaia i fabbricati del demanio preda del degrado, del vandalismo e più in generale di un totale abbandono, dal Friuli alla Sicilia. Milioni di euro di immobili quali caserme, centri CAR, ex basi della Guerra Fredda, polveriere, depositi ma anche scuole e uffici civili perché non è la funzione a segnare il destino dello stabile quanto, il più delle volte, l’impossibilità di un recupero, di un rilancio o, più in generale, di un suo completo abbattimento.
Prendiamo per esempio un centro di media grandezza come Terni, circa 110 mila abitanti. Nel raggio di 500 metri sono 2 gli edifici fermi con le 4 frecce: l’ex Palazzo provinciale di Sanità e la sede della Banca d’Italia; nella zona industriale fanno invece capolino fra la vegetazione una ex polveriera dell’Esercito con un passato da “Recalcitrant Camp” (campo di prigionia alleato R707) e un terreno della Marina Militare, un tempo sito della Società Produzione Esplodenti Autarchici (SPEA) e anch’essa utilizzata dagli Alleati come campo di internamento. Finita la guerra torna ad essere proprietà militare italiana, questo fino agli anni 2000 quando l’intera area viene abbandonata. Il comune di Narni avanza dei progetti di riconversione, fra questi un grande parco giochi che avrebbe garantito lavoro e indotto, ma il tempo e i vincoli burocratici fanno sì che l’idea venga abbandonata. Trascorsa una decade il Demanio concorda la cessione dell’area ma è ormai tardi: oltre agli investimenti, infatti, mancano le risorse primarie per riqualificare (o per abbattere) il grande polo SPEA.
La difficoltà dei comuni a gestire ampie superfici in disuso è problema diffuso. Lo sanno bene le città sede di grandi Centri Addestramento Reclute, buona parte dei quali finita alle ortiche con la sospensione della leva obbligatoria (2005).
A Falconara Marittima (AN), ad esempio, la caserma “Umberto Saracini” dell’84° Reggimento “Venezia” è una capsula del tempo ferma all’anno 2000, quando il reparto è stato sciolto e la Bandiera di Guerra riconsegnata a Roma. Gli alti muri di cinta, il filo spinato, le inferriate alle finestre e la carraia d’acciaio pesante sembrano aver preservato gli interni da intemperie e curiosi e invece no, perché quasi 2 decenni d’incuria si sono fatti sentire e larghe crepe permettono oggi a ladri di rame e a vandali di compiere veloci sortite. In fondo i circa 10.000 metri quadrati sono una manna per i cacciatori di metalli, che nel tempo hanno spaccato e divelto gli arredi lasciando un tappeto di cocci e vetri rotti e, in alcuni casi, provocato situazioni di pericolo. Come nell’ottobre 2013 quando un incendio doloso ha mandato in cenere i 500 mq di uno dei 6 capannoni-alloggio delle reclute. Situazione simile è vissuta anche dai fabbricati del presidio dell’Aeroporto Militare di Falconara Marittima - Ancona e dall’adiacente deposito distanti poche centinaia di metri dal CAR.
Il destino della “Saracini” è segnato già agli inizi degli Anni 90'. Nel luglio 1991, infatti, rispondendo ad una interrogazione il Ministro della Difesa Rognoni afferma che per via delle esigenze di ridimensionamento delle spese Difesa, unitamente alla posizione (di fronte alla raffineria API) e all’ambiente insalubre nel quale si trova, l’84° “Venezia” è sciolto, concentrando così le risorse sugli altri 2 reggimenti marchigiani, il 28° “Pavia” di Pesaro e il 235° di Ascoli Piceno, che, con l’introduzione del servizio volontario, sarebbero diventati due importanti unità dell’Esercito Italiano: il primo per le PsyOps e il secondo per la formazione dei volontari.
Ciò che stupisce del documento è il fatto che, sin dalla fine degli Anni 80', si fosse al corrente dell’impossibilità di mantenere in efficienza un patrimonio immobiliare di migliaia di stabili la cui dismissione è valutata sia in base ai costi, sia tenendo conto dell’impatto più o meno negativo che questa azione avrà sull’economia locale.
A trent’anni dall’intervento di Rognoni altri capoluoghi e centri minori fanno i conti con le spese di gestione di vestigia d’epoca Guerra fredda: Fano con la “Paolini", Orvieto con la “Piave”, Cuneo con la “Vinicio Lago”, senza contare le basi NATO. Queste ultime seguono il destino dei fabbricati della leva e, a seconda dei casi, possono finire in abbandono come con la 1° ROC di Venda e con la Black Yard di Verona o pronte alla demolizione come nel caso della base di Cima del Grappa. A Mineo gli ex alloggi per i familiari dei militari NATO ospitano un centro accoglienza ben noto alle cronache.
Vetusti scheletri in cemento e acciaio che però, se venduti, possono rappresentare un indotto. Nel 2015 erano 76 gli immobili pronti ad essere venduti, fra loro l’ex base del 72° Gruppi Intercettori Teleguidati di Isola Rizza, 113.000 mq in tutto dei quali 19.400 edificati, il cui valore potrebbe attestarsi sui 20 milioni di euro. Considerando infatti che nella cittadina veneta il valore al metro quadro degli immobili privati è stimato in circa 1000 euro/mq, il conto è presto fatto…
Questo non vuol dire certo che la base di Isola Rizza sia una miniera d’oro: ammesso valga realmente 20 milioni di euro, ben pochi riuscirebbero ad acquistarla per non parlare di eventuali, ulteriori costi di riqualificazione.
Tuttavia le alternative all’orizzonte sono ben poche: museo della leva a gestione locale? Un discorso che avrebbe un senso per piccole strutture, magari di interesse storico-artistico che così verrebbe restaurate. E le altre? Troppo grandi per essere poli museali, magari più adatte ad essere trasformate in centri residenziali e parcheggi. Vendita al privato, dunque, purché l’acquisizione porti a progetti concreti di sviluppo urbano: vederle lì in disuso e prive di controlli è un pugno nello stomaco del decoro, della sicurezza e anche della cultura militare. La leva, coi suoi pro e suoi contro, è stato il più longevo strumento di conoscenza e di condivisione fra italiani dall’Unità all’avvento della rete internet.