Con la recente rielezione del Presidente turco Recep Tayyip Erdo?an, coronata dalla maggioranza assoluta in parlamento ottenuta dalla coalizione di riferimento fra i Partiti AKP e MHP dell’ultranazionalista Devlet Bahceli, si rafforzano i timori di instabilità nel bacino del Mediterraneo centro orientale e della penisola balcanica, da sempre una delle aree di riferimento per la sicurezza e lo sviluppo italiano.
Queste nuove minacce, che si manifestano come un mix di azioni di soft e hard power da parte di entità statuali eurasiatiche ed extra europee, fenomeni non statuali a forte base ideologica (terrorismo), cui si aggiungono i massivi eventi demografici (immigrazione), hanno generato un quadro strategico inedito per le istituzioni europee ed atlantiche.
In maniera significativa il Primo Ministro bulgaro Boris Borissov, a marzo 2018 ha lanciato l’allarme, chiedendo un’azione maggiormente incisiva sia all’Unione Europea ed alla NATO. Citando le parole dello stesso Borissov: “altrimenti Russia, Turchia e Cina avranno mano libera nei Balcani stanno occupando spazio ogni giorno che passa...”. Prima di Borissov un allarme simile era stato lanciato dal Primo Ministro greco Alexis Tsipras durante un incontro nel 2017 con l’omologo portoghese Antonio Costa. Discorso che Tsipras tornò ad affrontare nel settembre del 2017 durante la visita del Presidente francese Macron. Alla lista degli allarmi legati alla crescente presenza cinese e russa si sono aggiunti più recentemente altri alti esponenti, come i Ministri della Difesa del Montenegro, Ivica Ivanovic ed il Ministro della Difesa della Macedonia Stevo Pendarovski.
Altrettanto significative le dichiarazioni dell’Ambasciatore USA in Grecia, Geoffrey Pyatt che nel corso di un’intervista rilasciata la TV di stato ellenica, lo scorso 1° marzo, espresse la sua viva preoccupazione per l’attivismo russo nei Balcani: “La nostra preoccupazione per l’influenza maligna della Russia nei Balcani Occidentali è reale. Si fonda in quello che vediamo su di un vasto spettro di azioni da parte di Mosca: dalla manipolazione dell’energia a quella della Chiesa Ortodossa, sino al tipo di scontro frontale che abbiamo visto durante il tentato golpe in Montenegro nell’Ottobre del 2016”.
Dal punto di vista delle capacità di difesa e sicurezza europee, va notato che un’evidente spinta alla promozione degli interessi nazionali da parte di diversi paesi membri, ha complicato ulteriormente lo status dell’area, generando frizioni fra alcuni dei partner maggiori (Italia/Francia) e fondati timori di futura instabilità di tutto il quadro regionale, nel quale non è possibile neppure escludere possibili scontri, fra alcuni degli stessi membri della NATO e della UE (Grecia/Turchia/Cipro). In questo quadro preoccupante, nel quale l’attuale struttura NATO potrebbe non essere sufficientemente efficiente da garantire la stabilità dell’area, e in attesa dell’effettiva costruzione di una Difesa europea, diventa importante affrontare un dibattito sull’opportunità di affiancare a quelle esistenti (senza in alcun modo sostituirle né ostacolarle), una struttura o organizzazione multinazionale nuova.
Questa struttura d’area potrebbe essere basata sulla progressiva integrazione delle capacità (in senso ampio e non solo strettamente militare) dei paesi maggiormente esposti alle minacce di instabilità ed aventi interessi strategici quanto più possibile comuni. Quali paesi? Possiamo pensare ad uno scenario nel quale Italia, Romania, Grecia, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Montenegro, Albania, Cipro e Malta decidano di integrare le proprie capacità industriali, logistiche, scientifiche, di difesa. Si tratterebbe quindi di un organismo che affiancando UE e NATO, potrebbe garantire maggior coordinamento ed efficienza in caso di crisi regionali, sgravando al contempo UE e NATO da compiti impropri o politicamente di difficile gestione, così contribuendo a non aumentare il carico di critiche e sospetti ai cui queste istituzioni sono soggette.
Anche in questo caso, come in quello delle forze armate europee, si tratterebbe di creare e gestire un processo con un arco temporale non breve, potremmo ipotizzare un periodo di circa 15 anni per una piena integrazione, che parta da alcune funzioni di base (addestramento, programmazione) per confluire poi in una maggiore integrazione degli strumenti militari, infrastrutturali, scientifici e politici a supporto.
In questo senso l’integrazione balcanica e mediterranea potrebbe costituire anche un interessante laboratorio esperienze a livello superiore (Bruxelles). Già in ambito NATO alcune funzioni hanno ricevuto impulso verso una maggior integrazione operativa ed addestrativa, costituendo un importante background di esperienze sui quali fare leva.
Una prima e molto preliminare valutazione dell’impatto di una tale organizzazione sulle capacità militari dei paesi membri, la si può ottenere utilizzando i dati resi disponibili da più fonti (NATO, Ministeri della Difesa). Attualmente i 10 paesi coinvolti, destinano alla funzione Difesa circa 32 miliardi di euro/anno (valori 2017). Una cifra che, pur raggiungendo solo un valore pari all’ 1,25% del PIL nominale cumulativo 2018, costituisce comunque una dotazione rilevante.
La stessa cifra calcolata in PPP a valore 2018, aumenta a 38 miliardi di euro, segnalando un dato molto interessante e cioè che lo sviluppo di attività basate nell’Est Europa, come a titolo di esempio, degli hubs manutentivi o di produzione di componentistica, aumenterebbero la capacità di acquisto implicita del budget cumulativo.