Questa volta gli USA non potranno limitarsi ad una risposta meramente simbolica al presunto attacco chimico di Douma come quella data lo scorso anno per Khan Sheikun, e dopo la "non risposta" dell'agosto 2013 ai fatti di Ghouta, ma dovranno necessariamente agire in maniera più robusta. Ne va della loro credibilità di fronte al mondo rispetto all’obbligo di far osservare quelle soglie dichiarate come non superabili. In pratica, è come se Washington si ritrovasse prigioniera delle proprie dichiarazioni/impegni per i quali finora è stata sostanzialmente inadempiente. Una non risposta, o una risposta “leggera”, infatti, incentiverebbe i nemici ad usare ancora armi chimiche, legittimandone di fatto un utilizzo limitato sul piano tattico (come avvenuto in tutti questi anni in Siria da entrambi i fronti), e dimostrebbe ad amici ed alleati la scarsa credibilità dell'impegno politico-militare americano. Tuttavia, il "dilemma della credibilità" vale anche per la Russia. Mosca non potrebbe non rispondere ad un'azione americana che non sia solo simbolica, pena, da un lato, la dimostrazione della debolezza della propria strategia di “guerra ibrida”, dall’altro, la dimostrazione agli occhi dei propri clienti/alleati locali del limite della propria garanzia. Si sta creando, perciò, una pericolosa spirale che ricorda sinistramente quella che portò alla Prima Guerra Mondiale.