RIVISTA ITALIANA DIFESA
Osservatorio Geopolitico 18/06/2014 | Ce.S.I.

Ad attirare l’attenzione della Comunità Internazionale, negli ultimi mesi, sono state le tornate elettorali di tre Paesi molto diversi l’uno dall’altro accomunati, tuttavia, dall’instabilità che caratterizza i rispettivi fronti interni: Egitto, Iraq e Ucraina.

 

Al Cairo si è consumata la plebiscitaria e annunciata vittoria del Generale al-Sisi, l’uomo della restaurazione dopo l’exploit della Primavera Araba e la breve stagione di potere della Fratellanza Musulmana. L’ex capo delle Forze Armate, espressione del mondo militare egiziano e degli enormi interessi da esso rappresentati, si troverà a gestire un Paese dalla precaria situazione economica e caratterizzato da fratture sociali e politiche assai profonde. Infatti, se non affrontato adeguatamente, il malcontento popolare rischia di riproporsi in forme violente e difficilmente arginabili e, magari, accrescendo il fronte dei simpatizzanti dei movimenti salafiti. In questo senso, la repressione della Fratellanza Musulmana, sancita con una massiccia campagna di arresti e condanne a morte, rischia di avere pesanti ripercussioni e ritorcersi contro la nuova amministrazione. La sfida alla sicurezza, dunque, appare molto complessa, soprattutto se si considera il fatto che il governo dovrà anche confrontarsi con la crescita delle attività jihadiste nel Sinai e nelle principali città del Paese.

 

Non meno difficoltosi da raggiungere sono gli obbiettivi di stabilità del governo iracheno. La riconferma di Maliki, infatti, nasconde molte insidie. Il Premier iracheno, suo malgrado, dovrà mettere da parte le malcelate aspirazioni ad imporsi come uomo forte del Paese e cercare una nuova rete di alleanze anche con quegli interlocutori precedentemente messi in disparte. Le politiche talvolta assertive di Maliki hanno generato un profondo malcontento nel fronte sciita, costringendo il Premier a considerare la possibilità di modificare il proprio approccio verso le realtà curde e sunnite. Si tratta di una scelta quasi obbligata, soprattutto alla luce delle recenti sollevazioni tribali ad Anbar che hanno messo in evidenza, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, la facilità di infiltrazione qaedista nelle tribù sunnite irachene.

 

La violenza delle insurrezioni anti-governative rappresenta la principale preoccupazione anche del neo-eletto Presidente ucraino Petro Poroshenko, oligarca di estesa esperienza politica e alfiere della volontà euro-atlantista di Kiev. Infatti, l’insurrezione popolare delle regioni orientali non accenna a placarsi e il negoziato appare sempre più difficile. I separatisti filorussi, ben equipaggiati e sostenuti da “volontari” provenienti dalla Russia, hanno sinora risposto colpo su colpo alla vasta operazione anti-terrorismo lanciata dalle autorità centrali ucraine. Ad oggi, la pacificazione del Paese sembra lontana e con essa la possibilità di normalizzazione dei rapporti tra Bruxelles, Washington e Mosca, eminenze sempre meno grigie nella crisi e separate da una divergenza di interessi che diventa via via più marcata con il passare dei mesi.

 

Meno importanti per l’aspetto politico, ma ugualmente significative per quello simbolico, sono state le elezioni presidenziali siriane, svoltesi in una porzione assai limitata del Paese e intese a dimostrare, alla Comunità Internazionale e al fronte internom la tenuta del regime di Assad. La grande dimostrazione di potere, da parte del Presidente, ha assunto ancora più importanza poiché sugellata dalle importanti vittorie militari contro i ribelli a Qalamoun e Homs. Nonostante l’opposizione di buona parte della Comunità Internazionale e la crescita delle forze ribelli, le autorità di Damasco non manifestano ancora segni di cedimento, a testimonianza che la risoluzione della guerra civile è ancora lontana dall’essere raggiunta.

 

Infine, volgendo l’attenzione al Continente Africano, il centro delle cronache continua ad essere occupato da Boko Haram e dalla crescente sofisticazione operativa e politica delle sue attività. Il rapimento delle adolescenti cristiane nel nord est del Paese rappresenta una delle azioni più incisive della setta salafita, la prima in grado di mettere in seria difficoltà politica il governo di Jonathan e costringerlo  ad accettare l’aiuto occidentale nelle operazioni di ricerca.

 

Oltre al fronte nigeriano, la cui instabilità ormai non sorprende, a destare rinnovata preoccupazione è la ripresa di azioni ostili da parte dei ribelli tuareg nel nord del Mali. Anche se nell’Azawad, patria del popolo blu del deserto, l’insurrezione etnica ha perso le connotazioni tipicamente jihadiste della guerra del 2012-2013, le reti qaediste sono ancora molto attive e sfruttano la mancanza di controllo statale nelle immense regioni rurali del Paese. Ciò vuol dire che, nonostante i timidi risultati raggiunti da MINUSMA e da SERVAL, quell’area del Sahel continua ad essere il crocevia per la diffusione e la proliferazione del terrorismo di matrice religiosa e dei traffici illegali di armi, droga ed esseri umani. 

 






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