RIVISTA ITALIANA DIFESA
La missione italiana in Libia 21/08/2017 | Alessandro Marrone, IAI Istituto Affari Internazionali

Il lancio della missione navale nelle acque libiche è stato uno dei passi più importanti dell'Italia, insieme all'attuazione del codice di condotta per le ONG che ha concorso alla recente riduzione degli sbarchi di migranti, nell'affrontare un problema a cavallo tra sicurezza esterna ed interna, politica di difesa ed ordine pubblico quale la crisi migratoria che stiamo vivendo. Crisi in corso ormai dal 2013, con flussi migratori illegali e massicci che hanno messo sotto pressione l’Italia da diversi punti di vista: economico, sociale, politico, e non da ultimo quanto a sicurezza nazionale e del cittadino. Dal 2014 al 2016, in media oltre 160.000 migranti l’anno provenienti dalla Libia sono sbarcati in Italia, e nei primi 7 mesi del 2017 sono 95.000 gli arrivi sulla rotta libico-italiana. Con questi numeri, la questione migratoria ha assunto ovviamente grande importanza nell’agenda politica nazionale, e non a caso in questi anni i ministri italiani degli Esteri, della Difesa e degli Interni hanno intensificato gli incontri internazionali con le rispettive controparti europee ed africane, portando la questione anche ai tavoli UE, NATO e ONU. La crisi migratoria è intrinsecamente legata alla questione libica. Considerando che nel 2010, prima dell’abbattimento del regime di Gheddafi, i migranti sbarcati in Italia e provenienti dalla Libia furono solo 4.406, è evidente come la situazione di anarchia e conflittualità in Libia sia la variabile determinante nell’aver moltiplicato per 40 volte il flusso di migranti tra il periodo pre- e post- 2011. Evidenza confermata, a contrario, dal caso della Turchia: dove c’è un’autorità statale in grado di controllare i propri confini, il flusso di migranti verso l’Europa è stato quasi azzerato in pochi mesi una volta raggiunto l’accordo politico tra i governi europei e quello turco. L’idea di sostenere, equipaggiare e formare la Guardia Costiera e la Marina Libica ha dunque senso proprio nell’ottica di ristabilire quella capacità statale di controllare il territorio ed i confini, e, dunque, di ridurre e gestire il flusso migratorio. Non a caso, attività simili sono state inserite nel mandato delle missioni navali UE operanti nel Mediterraneo dal 2013, e nell’Operazione NATO SEA GUARDIAN lanciata nel 2016, nonché in diverse iniziative militari italiane nella Libia post-Gheddafi. In questo contesto, la missione approvata dal Parlamento lo scorso 2 agosto rappresenta un passo ulteriore dettato da 2 motivazioni, di carattere rispettivamente internazionale ed interno. A livello internazionale, la motivazione sta nel vertice convocato a Parigi dal Presidente Macron con il Premier libico Serraj, a capo del governo di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale, ed il Generale Haftar, uomo forte della Cirenaica appoggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, e dalla stessa Francia. Il vertice è stata una iniziativa unilaterale francese, che non ha giocato di sponda né con le istituzioni UE – assenti all’incontro – né con l’Italia, che negli ultimi anni ha promosso diverse azioni multilaterali di sponda con l’Amministrazione di Barack Obama, l’ONU e l’UE, a favore dell’accordo di Sikhrat e del Governo Serraj nato da quell’accordo. Azioni più che mai necessarie visti gli interessi nazionali in gioco in Libia, dalla questione migratoria a quella della sicurezza regionale, dagli approvvigionamenti energetici agli scambi commerciali. La stretta di mano tra Serraj e Haftar alla presenza di Macron ha costituito un forte ritorno di immagine e diplomatico per la Francia, ma come notato da molti esperti della realtà libica la consistenza e tenuta dell’accordo è tutta da verificare. Specie considerando le mosse immediatamente successive di Haftar, che sembra intenzionato ad accrescere manu militari il suo potere sulla Libia piuttosto che a trovare un accordo con i gruppi di Tripoli e Misurata coalizzati intorno a Serraj. Aldilà delle conseguenze sul campo libico del vertice parigino, l’effetto politico, diplomatico e psicologico sui policy-makers e sull’opinione pubblica italiana è stato quello di uno scollamento, scavalcamento, o “dita negli occhi” dalla Francia all’Italia. Effetto facilitato dalle concomitanti tensioni sul dossier STX-Fincantieri, e amplificato dalle aspettative eccessive riposte da una parte dei media italiani sul “europeismo” di un leader pur sempre francese come Macron. Di fronte al vertice di Parigi, per il Governo italiano un modo per recuperare terreno è stato incontrare Serraj di ritorno dall’Eliseo, e accelerare sull’ipotesi di una missione militare sulle coste libiche che rafforzasse la posizione dell’Italia per meglio tutelare gli interessi nazionali in una situazione così fluida e densa di attori esterni molto attivi – dalla Francia alla Russia, alle potenze regionali del mondo arabo. L’altra motivazione per il rapido lancio di una missione militare in loco, dichiaratamente volta a favorire il contrasto libico ai trafficanti di esseri umani, sta nella necessità di dare una risposta alla domanda politica dell’elettorato e dell’opinione pubblica di “fare qualcosa” per ridurre gli sbarchi di migranti. Una domanda strutturale ormai da anni, legittima e pressante, che non ha trovato risposta nei risultati modesti ottenuti in ambito UE, dai ricollocamenti che segnano il passo, ai finanziamenti non all’altezza dei costi che sta sopportando l’Italia. L’apice dell’inadeguatezza della risposta europea, e della disillusione italiana al riguardo, si è probabilmente avuto con la chiusura dei porti francesi e spagnoli alle navi dei migranti nel nome di norme del diritto del mare. Una misura che contrasta di fronte alla nuova realtà di mezzo milione di migranti imbarcati, in 40 mesi, appositamente su carrette del mare destinate ad affondare se non soccorse da qualcuno: una situazione ben diversa dal caso di un singolo incidente in mare, per cui di norma i soccorritori hanno l’obbligo di portare i naufraghi nel porto sicuro più vicino. Ecco quindi che l’azione militare è stata considerata come una valida e visibile risposta ad una domanda politica interna, nonché come utile supporto alla politica estera in Libia di fronte all’attivismo diplomatico francese ritenuto dannoso degli interessi italiani. Considerazione assolutamente legittima, oggi come ai tempi di Carl Von Clausewitz che notava come la guerra è la prosecuzione della politica con l’aggiunta di altri mezzi. E considerazione in linea con il Libro Bianco della Difesa adottato dall’Italia nel 2015, che delinea una serie di compiti per le Forze Armate al servizio degli interessi nazionali e identifica la regione euro-mediterranea come area prioritaria di intervento. Tuttavia, quello che sembra mancare nel caso della missione navale è proprio una strategia al cui servizio porre l’uso dello strumento militare, fosse anche quello limitato di 2 unità per il supporto tecnico-logistico. Quali risultati può ottenere tale sostegno alla Guardia Costiera o alla Marina Libica, quando in Libia manca uno stato, un governo, un parlamento, una forza armata nazionale – ovvero il monopolio legittimo della forza da parte di un’autorità politica? La frammentazione tribale libica, l’ingerenza degli attori esterni, il peso della criminalità e della corruzione, gli effetti di 6 anni di anarchia causati dall’intervento militare voluto da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti che ha concorso a rovesciare il regime di Gheddafi, sono tutti elementi che oggi rendono difficile portare avanti un processo di riconciliazione nazionale verso uno stato decentrato che riprenda il controllo del territorio. Il disinteresse americano per la Libia e la ritrosia europea di fronte a interventi massicci di istitution building dopo la fatica militare, politica ed economica di 15 anni di operazioni in Afghanistan, rendono quasi impossibile una missione stile ISAF in Libia. Eppure, tra l’estremo di dispiegare 130.000 truppe sul terreno come fatto a Kabul nel 2011, e quello di inviare solo un pattugliatore ed una nave anfibia per aiutare la guardia costiera di uno stato inesistente, c’è ampio spazio per pensare ad una strategia più efficace. Una strategia in cui l’uso proporzionato della forza armata da parte di Italia e UE avvenga nel quadro di una iniziativa diplomatica a guida italo-francese, o franco-italiana, che coaguli il consenso dei principali partner europei – Germania in primis – e di quelli regionali – dall’Egitto all’Algeria. Se a molti può sembrare utopico pensare ad un dialogo e quindi ad un accordo tra Francia e Italia sulla Libia, è ancora più utopico pensare di stabilizzare il Paese nordfricano con Parigi e Roma che appoggiano fazioni libiche in lotta tra loro. E senza uno stato funzionante in Libia, è perfino più utopico pensare che gli sbarchi di migranti vengano ridotti da 2 navi militari italiane nelle acque libiche.


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