Il richiamo di James Mattis al “fair burden sharing” tra alleati in seno alla NATO ha suscitato preoccupazione per diversi motivi, tra cui le priorità politiche della nuova amministrazione Trump, la dipendenza strategica dei Paesi europei dall’ombrello statunitense, e la difficoltà dei Governi europei a reperire risorse, stretti tra opinioni pubbliche ostili e vincoli di bilancio. L’Italia non fa eccezione. Tuttavia, l’argomento è più complesso perché riguarda il peso e il ruolo del Paese nel suo complesso, nel bene e nel male. In primo luogo, l’Italia continua ad essere tra i Paesi più importanti dell’Alleanza Atlantica, non solo in virtù della sua dimensione. La tradizionale tendenza italiana a favorire le organizzazioni multilaterali, rispetto ad una posizione assertiva, non ha valore solo negativo. Spesso il nostro Paese ha fatto da mediatore all’interno dell’Alleanza, ruolo raramente messo sotto i riflettori per la sua intrinseca delicatezza, ma ben ricoperto e molto apprezzato. Ad esempio, è poco conosciuto che l’Italia è tra i pochi Paesi NATO che considerano davvero l’Alleanza come impegnata su un unico fronte, piuttosto che alimentare la retorica del confronto tra fronte orientale e meridionale. E quanto richiesto e ottenuto per il Mediterraneo è un risultato che si deve al fatto che l’Italia, le cui esigenze si focalizzano chiaramente in Nord Africa e Medio Oriente, non ha mai rifiutato di partecipare alle iniziative dell’Alleanza dedicate ad uno o più membri che richiedessero sostegno. Se si fosse fatto affidamento esclusivamente sull’allineamento con Spagna, Portogallo e Francia, i risultati concreti sarebbero stati inferiori. Infatti, i Paesi dell’Europa orientale hanno una sola richiesta comune: il contrasto della minaccia russa. I Paesi dell’Europa meridionale, invece, hanno esigenze differenziate, quindi il coordinamento politico necessario a far presente la propria posizione in seno all’Alleanza in collaborazione con altri – volta ad aumentare il peso della richiesta – è complicato, e le geometrie politiche estremamente fluide. Si pensi, ad esempio, alle strategie necessarie per la Libia, dove l’interesse italiano, britannico, francese e statunitense non sono direttamente sovrapponibili. Quindi, il Segretario Stoltenberg, riferendosi proprio al caso dell’Italia, ha precisato che “il burden sharing non significa solo spendere. Vanno tenuti presenti i contributi alle operazioni, attività e missioni, nonché molti altri fattori di natura non monetaria”. Ed in effetti, per il ruolo che l’Italia ricopre, tale partecipazione è forte e prescinde dalla dimensione strettamente geografica delle iniziative. D’altronde, se non si mette qualcosa sul piatto per gli altri, e non sempre ricevendone una contropartita immediata, questi non avranno interesse alcuno a comportarsi diversamente. Sembra banale, ma è un ragionamento sempre meno frequente a causa del quale alcuni meccanismi di collaborazione, pur consolidati, rischiano di erodersi. Per il nostro Paese, invece, questa formula vale ancora. E quindi l’Italia è tra le lead nation in Afghanistan, peraltro con performance straordinarie, nel 2018 guiderà la VJTF, contribuisce alla Enhanced Forward Presence e alla Baltic Air Policy, ha schierato una batteria missilistica SAMP-T in Turchia, garantisce la difesa dello spazio aereo sloveno, e così via. Pertanto l’intransigenza statunitense è solo in parte giustificata; è vero, i Paesi europei continuano a fare buon viso e cattivo gioco sul tema delle spese. Il divario tra gli Stati Uniti e gli altri membri della NATO è gigantesco: Washington spende circa 600 miliardi di dollari contro i circa 300 degli altri 27 messi insieme. Ma anche in questo caso, occorre fare un ragionameno più approfondito. Nonostante il divario, gli Stati Uniti hanno una politica globale, per cui la spesa militare è commisurata al loro ruolo di superpotenza. Questo prescinde da ogni considerazione che riguardi l’esistenza stessa della NATO. Lo status che gli Stati Uniti ambiscono a ricoprire li forza a spendere sia in tempo di pace che di guerra e a proiettare le proprie Forze Armate ovunque. Ambizione che i singoli Paesi europei non nutrono, o che non si possono permettere, mentre l’Unione Europea, che rappresenta il più grande mercato mondiale, si muove con altre dinamiche e con fini che non prevedono la supremazia militare (a torto o a ragione è un altro discorso). Questo si traduce nel fatto che nel budget statunitense una parte sempre più importante viene dedicata all’Asia, una parte consistente ancora al Medio Oriente, mentre la spesa per la sicurezza dell’Europa, ancorché rilevante e fondamentale, è minoritaria rispetto alla somma totale delle forze. In Europa, gli Stati Uniti sono presenti con 67.000 uomini, contro gli oltre 180.000 presenti in Asia, per fare un esempio, mentre il Medio Oriente assorbe circa 25.000 uomini. Sebbene gli alleati possano usufruire dell’ombrello statunitense virtualmente su scala globale, è altresì vero che la stragrande maggioranza delle Forze Armate statunitensi sono schierate in regioni chiave per l’interesse nazionale, secondo le priorità richieste dalla postura strategica del Paese. Come è giusto che sia, ma con la conseguenza che sottolineare l’intero budget statunitense per ottenere un obiettivo regionale in Europa è altrettanto “unfair” dei giochetti europei sui bilanci. Passando alla qualità dell’impegno, l’importanza della presenza statunitense in Europa è indiscutibile e il continente continua ad averne un bisogno indispensabile. Però, per quanto riguarda le priorità statunitensi, ancora una volta non è l’Europa il fulcro delle operazioni. Nel 2017 il bilancio assegnato alle OCO (Overseas Contingency Operations), ovvero quello che finanzia le missioni all’estero, fuori dal base budget, ammonta a 58,8 miliardi di dollari, di cui il 71% sarà speso in Asia, il 12,7% in Medio Oriente e circa il 5,7% in Europa. Invece, per la maggior parte degli alleati europei è vero il contrario. Magari spenderanno meno, ma quello che riescono a strappare al budget pubblico va in larga parte in missioni NATO e al fianco degli alleati statunitensi. Per quanto riguarda l’Italia, che spende oltre 1 miliardo all’anno per le missioni, il discorso è particolarmente vero e, per il bilancio di cui il Paese dispone per la Difesa, nel complesso rappresenta un risultato importantissimo. A dispetto delle cifre piccole in confronto al budget statunitense, la presenza italiana è tangibile in tutti i teatri ed ha un effettivo impatto sulle missioni che la NATO deve compiere. I nostri soldati si sono sempre distinti per i risultati raggiunti in aree estremamente problematiche, dove persino i ben finanziati statunitensi hanno faticato, grazie ad una serie di fattori non monetizzabili dei quali non si può non tenere conto. E questo impatto è molto più importante delle poche decine di soldati estoni, lituani o bulgari, i quali partecipano alle missioni proprio per guadagnare un piccolo gettone da spendere a Bruxelles. Lo facciamo anche noi, ma in maniera articolata e complessa, che impegna il Paese politicamente, economicamente e militarmente, al massimo delle sue possibilità. Infine, traendo il bilancio di quanto ottenuto dall’Italia affinché la NATO si impegni nel Mediterraneo, il risultato è degno di nota ma, se si utilizzasse lo stesso metro di valutazione adottato da Mattis, insoddisfacente. I teatri africani e mediorientali sono così complessi che le variabili in gioco sono molte di più di quelle realmente gestibili. Di conseguenza, se si volesse/potesse davvero stabilizzare l’area, si dovrebbero utilizzare strumenti politici e militari ampi per prendere l’iniziativa e stabilire per primi le regole del gioco. Altrimenti si rischia di subire il ritmo di Stati e attori non statuali magari deboli in valore assoluto, ma molto attivi, e che portano il confronto sul loro campo di azione preferito, per poi colpire duro. In tal senso, maturare una maggior consapevolezza della situazione, missione assegnata all’hub per l’intelligence che verrà realizzato presso il JFC di Napoli, è fondamentale. Ma si tratta, comunque, di una misura difensiva che può guadagnare tempo, ma che da sola, o in coordinamento con strumenti blandi, non sarà risolutiva. Non è una sfida che il nostro Paese può affrontare da solo e non potrebbe farlo nemmeno raddoppiando le proprie spese per la Difesa. Ciononostante, l’Italia ha dimostrato di comprendere che le soluzioni complesse richiedono tempo e che gli Stati Uniti sono in difficoltà ad intervenire ovunque. E’ lecito attendersi reciprocità.