RIVISTA ITALIANA DIFESA
La Nato dopo Varsavia 11/07/2016 | Alessandro Marrone

Il recente vertice Nato di Varsavia ha segnato una serie di piccoli aggiustamenti alla postura strategica dell'alleanza, nella direzione di una maggiore centralità della deterrenza e difesa, principalmente sul fianco orientale ma non solo. 

Il summit non è stato rivoluzionario, né ha approvato documenti importanti come l'ultimo Concetto Strategico di Lisbona nel 2010 o, a livello più operativo, il Readiness Action Plan di Newport nel 2014. Il lungo comunicato finale, e la breve “Dichiarazione di Varsavia sulla sicurezza euro-atlantica” che ne sottolinea gli elementi principali, danno una prospettiva di insieme alle (variegate) decisioni prese dal vertice secondo due linee guida complementari: da un lato rafforzare la difesa del territorio degli stati membri e la deterrenza verso qualsiasi attacco verso di esso, dall'altro la proiezione di stabilità oltre il perimetro dell'alleanza. I due obiettivi vengono messi sullo stesso piano, e nell'incipit del comunicato si riafferma che tutti e tre i core tasks stabiliti dall'attuale Concetto Strategico – difesa collettiva, operazioni di gestione delle crisi, e sicurezza cooperativa anche tramite partenariati – rimangono rilevanti e complementari.

Tuttavia è nei fatti, oltre che tra le righe dei documenti adottati, un ritorno alla centralità della difesa collettiva, sancita dall'articolo 5 del Trattato di Washington e definita a Varsavia la “responsabilità fondamentale” dell'alleanza. Un ritorno che si concretizza nel bilanciamento da un lato di difesa e deterrenza, dall'altro di dialogo verso Mosca, nello spazio dedicato al deterrente nucleare e alla Ballistic Missile Defence (BMD), e nell'avvio di una revisione delle strutture di comando e controllo (C2) Nato. 

Il vertice ha cercato di mantenere un equilibrio tra chi ha spinto per il rafforzamento delle capacità di deterrenza e difesa, Polonia e Paesi Baltici in primis – ma non solo - e chi in Europa occidentale ha voluto evitare che ciò fosse slegato da un dialogo strategico con la Russia per ridurre le tensioni e de-escalare la crisi nei rapporti reciproci.

Tra gli elementi di questo equilibrio vi è il rafforzamento della presenza militare al confine orientale, tramite il dispiegamento in Polonia e in ciascuno dei tre Paesi Baltici di un battlegroup a livello di battaglione, comprendente i necessari assetti abilitanti affinché sia effettivamente in grado di operare e combattere se necessario. Ovviamente il ruolo della nazione ospitante sarà fondamentale quanto a infrastrutture, logistica e rifornimenti, per integrare questi battaglioni multinazionali in un sistema di difesa efficace. Gli Stati Uniti guideranno il battlegroup in Polonia, assicurando la presenza di soldati americani tanto desiderata da Varsavia, mentre Canada, Germania e Gran Bretagna si assumeranno lo stesso onere rispettivamente in Lettonia, Lituania ed Estonia. Il vertice ha anche accolto l'offerta della Polonia di un proprio quartier generale, a livello di divisione, per farne un centro di comando multinazionale Nato rinviando, tuttavia, ad una ulteriore decisione del Consiglio Nord Atlantico al riguardo. Un comando di simile dimensione è già attivo in Romania per l'Europa sud orientale, di cui Bucarest punta a rafforzare le attività di addestramento, mentre si è deciso di dispiegare ulteriori assetti in Turchia. Vi è infatti, in ambito Nato, preoccupazione per il vantaggio acquisito dalla Russia nella regione del Mar Nero, grazie all'annessione della Crimea, cui si aggiunge il consolidamento della presenza militare nel Mediterraneo orientale, grazie alla base siriana di Latakia ed alla base navale di Tartus.

Un tale rafforzamento del dispositivo militare alleato sul fronte orientale, dal Baltico al Mar Nero, è stato accompagnato da due elementi politico-diplomatici non marginali. Il primo è il carattere non permanente dei battlegroups a rotazione, che si lega al rispetto dell'accordo tra l'alleanza e la Federazione Russa del 1997, riconfermato dal vertice di Varsavia. Il secondo è la riapertura dei canali negoziali, sia a livello militare, sia nell'ambito del Consiglio Nato-Russia, con l'obiettivo di un dialogo “periodico e significativo”: non a caso si era tenuta una riunione del Consiglio lo scorso 20 aprile, ed un'altra è stata programmata per il 13 luglio.

In tale prospettiva roosveltiana di parlare a bassa voce e portare con sé al tavolo negoziale un grosso bastone, il comunicato del summit dedica, per la prima volta da diversi anni, uno spazio non marginale al dossier nucleare. Poiché le armi atomiche svolgono una funzione strategica di deterrenza tramite il loro non utilizzo, la “politica declaratoria” di una potenza come la Russia, o di una alleanza nucleare come la Nato, assume una grande importanza, maggiore di quella delle dottrine e dichiarazioni riferite alle armi convenzionali che possono essere testate sul campo in conflitti più o meno limitati. In quest'ottica, come nei precedenti vertici, si ribadisce che la Nato rimarrà un'alleanza nucleare finché tali armi esisteranno, tenendo ben sepolta la “opzione zero” prospettata da Obama a Praga nel 2009, e si conferma che, per quanto riguarda deterrenza e difesa, un “appropriato mix di capacità di nucleari, convenzionali e di difesa missilistica resta un elemento essenziale della strategia complessiva Nato”.

Oltre a ciò, si nominano esplicitamente sia il deterrente strategico americano che quello inglese e francese, le armi nucleari tattiche statunitensi dispiegate in Europa, ed i relativi assetti ed infrastrutture forniti dagli alleati che le ospitano – ovvero, sebbene non ufficialmente, Belgio, Germania, Italia e Turchia. Tutti i Paesi membri che hanno a che fare con il deterrente nucleare alleato si impegnano a mantenere le sue componenti al sicuro ed efficaci, anche tramite il mantenimento dell'expertise necessaria nelle rispettive istituzioni, impegnandosi a coinvolgere il più possibile questi alleati negli accordi per la condivisone di un tale onere.

Il comunicato chiude il capitolo sul nucleare con due affermazioni molto significative, da leggere in risposta all'attuale dottrina russa che prevede un “first use” delle armi atomiche in un eventuale conflitto convenzionale, per compensare lo svantaggio quantitativo e qualitativo nei confronti della Nato – paradossalmente, proprio quanto previsto dalla dottrina alleata durante la Guerra Fredda quando le sue forze convenzionali in Europa erano inferiori a quelle del Patto di Varsavia. In primo luogo, fermo restando il principio attuale del no first use da parte dell'alleanza in caso di guerra, il documento afferma che “ogni uso di armi atomiche contro la Nato cambierebbe in modo fondamentale la natura del conflitto”. In secondo luogo, sebbene si riconosca che le circostanze nella quale l'alleanza potrebbe usare il proprio deterrente nucleare sono remote, si afferma che “se la sicurezza fondamentale di uno qualunque di suoi membri fosse minacciata, la Nato ha le capacità e la risolutezza di imporre all'avversario un costo inaccettabile”. Con queste parole gli alleati hanno voluto mettere in guardia Mosca che un uso di armi atomiche in un conflitto convenzionale rappresenterebbe una escalation tale da causare a sua volta l'uso del deterrente nucleare alleato.

La grande maggioranza dei Paesi membri non vorrebbe riaprire la riflessione sulle armi atomiche, considerando valida la Deterrence and Defence Posture Review del 2012, ma di fatto l'aggressività di Mosca in Ucraina, la modernizzazione dell'arsenale nucleare russo, la dottrina e le dichiarazioni del Cremlino sull'uso delle armi atomiche, hanno forzato la Nato a riprendere in mano il dossier. Dossier estremamente delicato, con una forte opposizione in Germania al mantenimento delle armi nucleari tattiche americana sul suolo tedesco, ed una disponibilità di massima della Polonia ad ospitarle che non è vista di buon occhio in Europa occidentale. Un'eventuale uscita della Scozia dalla Gran Bretagna via referendum, resa possibile dalla Brexit, complicherebbe ulteriormente la situazione data l'attuala localizzazione nella regione scozzese di parte significativa del deterrente nucleare britannico TRIDENT. 

Secondo il comunicato del vertice, la difesa missilistica può essere complementare ma non sostituire la deterrenza nucleare. Del sistema di Ballistic Missile Defence deciso a Lisbona nel 2010, viene ora dichiarata l'Initial Operational Capabilities, anche alla luce degli assetti navali dispiegati e/o di quelli terrestri costruiti in Spagna (Rota), Romania (Deveselu) e Turchia (Kurecik) – nonché del sito previsto in Polonia (Redzikowo). Il passo successivo sarà il completamento del sistema di comando e controllo alleato, anche tramite fondi comuni Nato, per assicurare tutte le funzionalità previste dal dispositivo di BMD. Sin dall'inizio, lo sviluppo della difesa missilistica alleata per proteggere l'intero territorio europeo è stato pubblicamente motivato dalla minaccia iraniana, ed è quindi ora maggiormente criticato da Mosca alla luce dell'accordo del 2015 sul programma nucleare di Teheran e delle nuove relazioni avviate tra Iran ed occidente. Secondo la Federazione Russa, il sistema di BMD è, piuttosto, diretto contro la Russia stessa, ed altera l'equilibrio strategico in Europa. Il comunicato afferma, in tal senso, che la difesa missilistica in costruzione non è tecnicamente capace di colpire il deterrente nucleare strategico di Mosca, né c'è alcuna intenzione di ridisegnarlo per metterlo in grado di farlo. Ci si propone, quindi, di aumentare la trasparenza sul sistema alleato, lo scambio di informazioni, consultazioni e cooperazione con Paesi terzi caso per caso. Di nuovo, ad un rafforzamento della difesa Nato in campo missilistico si accompagna un'apertura politico-diplomatica per evitare una escalation con la Russia.  

Infine, il comunicato dedica poche ma importanti righe alla struttura di comando e controllo dell'Alleanza, ovvero alla spina dorsale e al sistema nervoso delle capacità alleate impiegabili in caso di operazioni militari fuori o dentro il territorio degli stati membri. La ristrutturazione e riduzione dei comandi Nato seguita alla fine della Guerra Fredda ha ridotto tale spina dorsale, in un contesto in cui le operazioni di gestione delle crisi si svolgevano su scala limitata, contro avversari statuali o non statuali dalle capacità militari drasticamente inferiori a quelle Nato – o russe – e spesso in conflitti a bassa intensità, o addirittura in teatri operativi permissivi. La campagna in Libia del 2011 ha segnato un primo campanello d'allarme, in quanto il comando militare integrato Nato ha faticato a gestire una missione considerata secondo gli standard alleati nella categoria “limitata” - sulle 200 sortite aeree giornaliere -  gettando dubbi sulla effettiva capacità di condurre operazioni su larga scala. Dubbi confermati poi dall'analisi critica della performance del C2 Nato in massicce esercitazioni condotte dalla Nato, come TRIDENT JUNCTURE che ha visto protagoniste nel 2015 Italia, Spagna e Portogallo. E' molto improbabile che il personale assegnato ai comandi Nato venga aumentato, visti i relativi costi per gli stati membri, o che venga cambiata la disposizione geografica dei comandi, a causa della sensibilità nazionale sul bilanciamento regionale. La revisione si concentrerà quindi sulle funzioni dei comandi, per rendere il sistema maggiormente efficiente ed efficace stante le attuali risorse a disposizione, specialmente in vista di scenari di conflitto su larga scala e ad alta intensità contro un avversario statuale che disponga di capacità militari per molti versi non inferiori a quelle alleate – ovvero, la Russia. 

La rinnovata centralità di difesa e deterrenza nella postura della Nato è ulteriormente confermata dalle decisioni prese sulle operazioni in corso e sul lancio di nuove, tenendo però conto che ogni teatro operativo ha le sue specificità. La missione RESOLUTE SSUPPORT in Afghanistan è stata prolungata oltre il 2016, con un contingente robusto – circa 12.000 unità – dispiegato a Kabul e nei quattro comandi regionali – Herat per l'Italia. Obama e gli alleati sono stati costretti a rivedere gli ottimistici piani in precedenza paventati dalla Casa Bianca per un ulteriore disimpegno, alla luce delle comprensibili difficoltà delle forze di sicurezza afgane nel tenere testa alla guerriglia talebana e al terrorismo islamico. La situazione afgana è nel complesso stabile, ma proprio un ritiro Nato potrebbe destabilizzarla e da qui l'impegno a rimanere per assistere i partner afgani, principalmente da parte di Stati Uniti (circa 8.400 unità), Italia (si ipotizzano 1.000 uomini), Germania e Turchia. Situazione ovviamente diversa ma simile decisione per il Kosovo, dove dopo 16 anni la missione Nato continua ad assistere le autorità locali in cooperazione con l'Unione Europea.

Si pone invece fine alla operazione OCEAN SHIELD nell'Oceano Indiano, ufficialmente perché, insieme a quelle Ue ed Onu, ha avuto successo nello stroncare la pirateria che era arrivata a livelli preoccupanti dieci anni fa. Di fatto, però, questa decisione è anche funzionale a liberare assetti navali alleati impiegabili nel Mediterraneo dove, non solo viene confermata l'operazione FRONTEX in corso nel Mare Egeo a sostegno di Grecia e Turchia per far fronte alla crisi migratoria, ma viene lanciata la nuova missione SEA GUARDIAN nel Mediterraneo centrale, che sostituirà l’attuale ACTIVE ENDEAVOUR, avviata in seguito agli attentati del 11 settembre 2001 per il controllo dei traffici nel bacino mediterraneo in funzione anti terrorismo e contro la proliferazione di armi di distruzione di massa. Al contrario, la SEA GUARDIAN avrà un mandato a 360 gradi per quanto riguarda la sicurezza marittima. L'idea principale è sostenere l'operazione Ue SOFIA di contrasto ai trafficanti di migranti, principalmente tramite assetti ISR e, in prospettiva, di contribuire alla formazione della Marina Militare e della Guardia Costiera libiche. Allo stesso tempo, SEA GUARDIAN servirà anche a rafforzare la presenza militare navale alleata nel Mediterraneo, in una fase in cui la Russia ha intensificato la sua attività di superficie e sottomarina al di qua e aldilà del Bosforo. Inoltre, nel Levante si mettono a disposizione della coalizione anti-ISIL i preziosi velivoli Nato AWACS, e si rafforza l'azione alleata per l'addestramento delle forze armate irachene, spostandolo dalla Giordania all'Iraq stesso.

Nel complesso, si mantengono dunque le missioni fuori area che per fondati motivi non è possibile concludere – in Afghanistan e Kosovo – si rinuncia a ciò che non è più prioritario – OCEAN SHIELD – e ci si concentra sul fianco sud della Nato dove difesa collettiva, gestione delle crisi e partenariati – in particolare la Defence Capacity Building - sono più intimamente connessi tra loro e più rilevanti per la sicurezza euro-atlantica. 

Le decisioni prese a Varsavia su vari elementi della postura Nato, accompagnate dalla verifica dell'attuazione del Readiness Action Plan, è in sostanziale continuità con il precedente vertice del Galles e conferma che i cambiamenti introdotti nel 2014 sull'onda della crisi in Ucraina non sono temporanei né facilmente reversibili. L'attitudine aggressiva della leadership di Putin nei confronti dell'occidente, quali che ne siano i motivi e non ammettendo responsabilità occidentali nella gestione degli sviluppi a Kiev tra 2013 e 2014, è un dato di fatto che va tenuto presente nel breve e medio termine, così come il conseguente stato di tensione tra Mosca e il blocco euro-atlantico testimoniato dalla postura dei rispettivi dispositivi militari - nonché dalle sanzioni economiche attivate.

Gli sforzi Nato per uscire da questa situazione, specialmente da parte di Paesi come Francia, Germania, Italia e Spagna, sono nel breve periodo rivolti innanzitutto a minimizzare i rischi di incidenti ed escalation, a riaprire i canali di comunicazione militari e politici, e a verificare la possibilità di cooperazione su dossier specifici. Non è tuttavia all'orizzonte un ritorno al business as usual, particolarmente osteggiato nell'Europa centro orientale – con l'eccezione ungherese – e nordica, nonché dalle attuali leadership angloamericane. Mutevole la posizione della Turchia, che è passata dall'ospitare Putin a Istanbul a pochi mesi dall'annessione della Crimea all'abbattere nel 2015 un velivolo militare russo per la prima volta nella storia della Nato, per poi chiedere scusa e riavvicinarsi a Mosca alla vigilia del vertice di Varsavia – vertice dove i turchi non si sono opposti ad una dichiarazione congiunta Nato-Ue sul partenariato strategico tra i due attori.

In questo contesto, è prevedibile che lo stato di confronto tra l'alleanza e la Russia continuerà nel breve e medio periodo, pur affiancato dalla ripresa di un dialogo che necessiterà concessioni da entrambe le parti, ad esempio sull'Ucraina, per portare dei risultati significativi. La riduzione delle tensioni e la prevenzione di un conflitto resteranno dunque condizioni necessarie – sebbene non sufficienti – per costruire una architettura di sicurezza regionale paneuropea accettabile dalle controparti. Difesa e deterrenza da un lato, dialogo e distensione dall'altro, dovranno quindi essere le due facce della medaglia dell'approccio alleato, con tutto quello che ne consegue per la postura della Nato: una postura più euro-centrica e più ad alta intensità di quanto lo sia stata dagli attentati del 11 settembre all'invasione della Crimea.


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