RIVISTA ITALIANA DIFESA
Intervento in Libia e criminalità 15/02/2016 | 0/30 GEA

Quando la gente soffre e muore è il caso di fare le cose seriamente e per bene con l’unico scopo ragionevole di limitare morti e sofferenze. Detto ciò, e pagato dazio alla provocazione del titolo, altrettanto immediatamente va chiarito che il tema della Libia è centrale - ma anche paradigmatico - in ragione della sua essenza, per cui parlandone avremo sempre a mente il contesto generale internazionale riassumibile nelle ricerca di un nuovo ordine mondiale di potenza e della lotta al terrorismo islamico. Premesso che la seconda è strumentale alla prima, è evidente che a sfruttare surrettiziamente la fede islamica siano in tanti tra gli infedeli e i presunti fedeli con eguali responsabilità e buona pace del messaggio dottrinario. Siamo in presenza di una pura e semplice lotta di potere per il potere; null’altro.

La considerazione introduttiva è di carattere militare: questi interventi o guerre asimmetriche, dall’Afghanistan, all’Iraq, e a breve, pare, in Libia, non possono essere mai vinti con gli eserciti e a pensarla così sono proprio i capi di Stato Maggiore degli eserciti occidentali, americani e francesi compresi.

I militari portano a termine, come possono, compiti specifici di natura militare; chiedergli altro è ridicolo e pericoloso.

In questi giorni, l’apparato militare d’oltralpe fa ripiegare le proprie forze dislocate nella Repubblica Centro Africana, circa 1.000 uomini, a margine degli sforzi finalizzati alla protezione degli interessi nella regione saheliana. Tale scelta sembrerebbe legata alla necessità di razionalizzare le spese in vista di un intervento in Libia ritenuto, evidentemente, di precipuo interesse per la Nazione. I soldi sono pochi anche per i francesi, considerando lo sforzo che sostengono in Mali e, in generale, nel Sahel. Tuttavia, i libici, in questo senz’altro uniti, non vogliono un intervento straniero sul proprio territorio; i 2 governi hanno oggettive difficoltà ad essere rappresentativi, ed è difficile ipotizzare che il terzo abbia migliori opportunità. In sostanza, l’intervento militare dovrebbe contemporaneamente essere in grado di sostenere l’operato di questa nuova struttura amministrativa e riuscire dove, con qualche imbarazzo sottaciuto, la comunità internazionale ha già fallito; inoltre e nel contempo, dovrebbe sconfiggere le forze che si riconoscono nello Stato Islamico. Ora, quest’ultimo impegno è senz’altro importante per la nostra sicurezza, per impedire che in Cirenaica si creino ulteriori basi d’addestramento per futuri combattenti radicalizzati sul tipo al-Qaeda in Afghanistan, ma impegnerebbe migliaia di soldati e comporterebbe perdite di vite umane in loco, esponendo, allo stesso tempo, il territorio italiano a ritorsioni terroristiche. Questi sono i costi che dovremmo eventualmente sostenere. Una diversa opzione potrebbe prevedere il classico sostegno, per il lavoro sporco, a qualcuna della fazioni in lotta sul territorio: scelta devastante e fallimentare, soprattutto nello scenario attuale libico. La situazione in Libia è nota ai più. Tre regioni: Tripolitania e Cirenaica - con risorse, gas e petrolio - e Fezzan - terra di transito e raccordo con il sud del continente. Non si può valutare la questione libica se non la si inserisce nell’ambito del quadro regionale che comprende il Sahel fino ai margini delle savane a sud e anche oltre.

Con il disgraziato intervento del 2011 si sono consapevolmente scatenate le forze localistiche che stanno ancora oggi cercando di trarre vantaggio dalla situazione di vuoto lasciata dalla morte di Gheddafi. E questo è quanto la Francia ha ottenuto, con lo scopo di esser chiamata successivamente a mettere ordine. Per inciso, queste tecniche ai francesi sono ben note, visto che le hanno teorizzate e messe in pratica per primi sin dai tempi della Restaurazione: “…fare dell’ordine attraverso il disordine…” Tuttavia, come gli stessi americani hanno sperimentato in Afghanistan ed in Iraq, per controllare i territori militarmente ci vogliono soldi (tanti), e la Francia, al momento, non sembra disporre di tali fondi. Quindi, mentre gli Stati Uniti mettono in pratica la dottrina del containment (limitazione degli interventi), i francesi perseguono una nuova e velleitaria politica coloniale con la pretesa di ottenere il sostegno della Comunità Internazionale. La verità è che la politica di potenza di molti paesi deve fare i conti con la realtà delle scarse risorse a disposizione.

In Libia i nemici giurati del cosiddetto “Stato Islamico” non sono da ricercarsi né all’interno del Governo di Tobruk, né tantomeno nelle forze guidate dal Generale Haftar, ma piuttosto nel Governo di Tripoli, ispirato dalla Fratellanza Musulmana, e nelle milizie che proteggono i siti petroliferi in Cirenaica e, soprattutto, nella costola maghrebina di al Qaeda (AQMI).

Il resto delle fazioni, soprattutto quelle appartenenti alla criminalità organizzata, si adegueranno alle posizioni del gruppo più forte con cui troveranno accordi di reciproca convenienza nella gestione  dei traffici criminali che interessano l’intero continente africano.

Esiste un livello geopolitico degli Stati ed uno pragmatico delle comunità; il primo deve necessariamente tenere conto del secondo, mentre il secondo è sempre meno vincolato al primo e questa è la chiave di lettura della contemporaneità.

AQMI nasce come formazione radicalizzata islamica ispirata dall’esperienza qaedista afghana, ma sin da subito se ne distanzia in ragione delle specifiche caratteristiche e, in particolare, dal modo in cui finanziava le proprie iniziative attraverso il controllo delle attività criminali nel Sahel e nel Maghreb. Sebbene la leadership di Abu Musab Abdel Wadodu, noto come Abdelmalek Droukdel, tenti ancora oggi di far prevalere l’idea di un’organizzazione insorgente islamica, la sua essenza, meno poetica e molto più concretamente prosaica, è meglio incarnata dal noto Moktar Belmoktar: un vero e proprio padrino mafioso di origine algerina, capace di cambiare organizzazione a seconda degli interessi propri e della confederazione di tribù che in lui si identificano. Classificare Belmoktar è di per se un errore di prospettiva, poiché questi prescinde completamente da qualsiasi radice: è un nomade nel senso più ampio del termine, essendo guidato esclusivamente dall’opportunismo e  dall’opportunità contingente. 

In tutta l’area nord-centro-africana nessun progresso, equilibrio e quindi stabilità, saranno mai possibili senza aver fatto i conti con la criminalità organizzata che gestisce il contrabbando delle sostanze stupefacenti, delle armi, degli esseri umani e via dicendo.

Questo è il grande paradosso: da un lato si vuole combattere il terrorismo ma, contemporaneamente, lo si finanzia attraverso il consumo di droga, l’acquisto di armi ecc.

Il terrorismo, comunque caratterizzato, è oramai saldamente connesso alla criminalità organizzata del territorio in cui opera in ragione di un proficuo convergere d’interessi, poiché il primo prelude a una forma di governo e quindi di protezione, mentre il secondo ne garantisce il sostegno e la sopravvivenza. Questo tipo di osmosi è tipicamente mafiosa secondo il Modello Sistemico Mafioso che, appunto, si basa sull'interazione e interdipendenza di 3 attori: politica, economia e criminalità. E’ solo questione di denaro e potere.

L’intero continente africano è oggi una polveriera pronta ad esplodere e 2 sono gli inneschi da temere: la demografia e la diseguaglianza. Il continente africano in passato è stato gestito con politiche post coloniali che si affidavano a teste di legno che per il proprio tornaconto personale, o del proprio clan, offrivano i propri servigi al miglior offerente. Oggi a determinare i governi sono, in larga parte, le differenti oligarchie criminali che sfruttano la debolezza di Stati che tali non sono mai divenuti, secondo l’accezione occidentale. In Africa confluiscono traffici di eroina e cocaina diretti verso l’Europa e il Nordamerica, quelli di armi convenzionali e di distruzione di massa e degli esseri umani, per citarne i più importanti. Gli enormi interessi producono forti pressioni che, in parte, si riversano sulle sponde del Mediterraneo, proprio laddove i diversi terrorismi trovano terreno fertile per infiltrarsi e attuare i propri disegni di potere. Intervenire in Libia vuol dire prepararsi anche a questo futuro.


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